Borsellino Quater, Giuliano Amato: «Mai saputo di trattativa»
L’ex presidente del Consiglio al processo sulla strage di via D’Amelio. La protesta del boss Madonia in videoconferenza
Si è aperto questa mattina con una nuova protesta dell’ex boss Salvatore Madonia, il processo Borsellino Quater, in cui è imputato davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta, insieme all’ex capomafia Vittorio Tutino e ai falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Madonia ha chiesto infatti di intervenire per rendere, come già nella scorsa udienza, delle dichiarazioni spontanee circa la documentazione processuale a lui necessaria per seguire le udienze. Documentazione che ad oggi, ha lamentato, non gli è stata ancora consegnata da quando è stato trasferito dal carcere dell’Aquila a quello di Viterbo. «Non mi è stata inviata – ha detto collegato in videoconferenza – nemmeno la biancheria. Sono stato preso dall’Aquila e portato a Viterbo senza poter prendere nulla. Questa documentazione mi serve urgentemente per predisporre, insieme al mio legale, oltre che la mia linea difensiva anche la lista testi per il processo che prenderà il via il 23 maggio sulla strage di Capaci». Madonia, infatti, compare anche tra gli imputati del nuovo processo per la strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, e che riprenderà proprio da Caltanissetta nel giorno del 22° anniversario dell’attentato.
«A me nessuno ha parlato di trattativa. Non perché non si possa trattare, ma con un’organizzazione criminale infiltrata anche nel sistema politico e amministrativo è da escludere». A rispondere invece così alla domanda del pm, se fosse a conoscenza o meno di una trattativa fra Stato ed esponenti di Cosa nostra, è Giuliano Amato, presidente del Consiglio nel 1992. « Non so se non me ne parlarono perché sapevano che mi sarei opposto o semplicemente perché non ci fu alcuna trattativa. In ogni caso – tiene a sottolineare – se me ne avessero parlato, avrebbero trovato in me il più fermo dissenso». In merito alla questione dell’avvicendamento alla guida del Viminale tra Vincenzo Scotti e Nicola Mancino, che per gli inquirenti sarebbe stata una “concessione” fatta nell’ambito della trattativa, vista la particolare durezza di Scotti nella lotta alla mafia, Amato ha ribadito quanto detto durante gli interrogatori a cui fu sottoposto dai pm di Caltanissetta. Per l’ex premier si trattò di una questione politica interna alla Dc. «Loro mi diedero indicazione del nominativo di Mancino», ha detto. Il teste ha poi ricordato di avere parlato con Fernanda Contri, ex segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri, di un suo incontro con l’allora colonnello del Ros Mario Mori, imputato a Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Amato, oggi giudice costituzionale, ha infine affermato che nel ‘92 cercò di spingere per adottare una via di intransigenza nella lotta contro la mafia: «Dopo la strage di Capaci la mia unica preoccupazione era che il cosiddetto “decreto Falcone” (provvedimento d’emergenza varato l’8 giugno 1992 per contrastare la criminalità mafiosa, ndr) venisse convertito in legge. Poi ci fu la strage di via D’Amelio e le misure nella lotta alla mafia vennero rafforzate. Da qui anche la decisione di inviare l’esercito in Sicilia».
Solo «un’allucinazione basata su un’ipotesi grottesca» è l’idea di una trattativa fra lo Stato e Cosa nostra attraverso il Ros e i Servizi segreti, secondo Pino Arlacchi, come lo stesso ebbe a dire durante una recente intervista rilasciata a Panorama e oggi anche lui ascoltato dai pm della Procura di Caltanissetta. Ex consulente della Dia, l’onorevole Arlacchi ha ricordato di quando, all’indomani dell’attentato all’Addaura (avvenuto il 21 giugno 1989), l’amico Giovanni Falcone gli disse di sapere chi fosse il colpevole. «Io penso, mi confidò, che sia stata la prima persona che mi ha telefonato: Giulio Andreotti». Falcone fece una seconda volta il nome dell’allora presidente del Consiglio all’amico: «Sai chi è il capo della mafia? – domandò ancora ad Arlacchi – È Andreotti. Me l’ha detto Buscetta». Lo sviluppo delle indagini successive, sia ad opera di Falcone che di altri investigatori, portò all’individuazione del ruolo dell’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada (condannato in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa) e soprattutto a «individuare, all’interno della Corte di Cassazione, la connection che consentiva di disfare i processi di mafia con pretesti vari, che non avevano nemmeno una grande base dal punto di vista giuridico. Tanto è vero che una delle prime proposte che fece Falcone a Martelli, una volta arrivato al Ministero, fu di far ruotare i presidenti di Sezione della Corte di Cassazione e di non far confluire in una sola Sezione i processi più importanti che riguardavano la criminalità organizzata. Tale sistema di rotazione fu decisivo nell’avere come presidente della fase cassazionista del maxiprocesso il giudice Brancaccio». La connection individuata da Falcone in primis riguardava lo stretto rapporto che esisteva tra il giudice Corrado Carnevale e Giulio Andreotti.
Di questo rapporto confidenziale tra l’ex presidente del Consiglio Andreotti e il giudice Carnevale, Arlacchi ne ebbe conferma parecchi anni dopo. «Nel 2006, l’ex agente della Cia Philip Giraldi, esperto di sicurezza internazionale conosciuto in Cina, mi confidò che era stato alla stazione della Cia di Roma dal ’78 all’82 e in quell’arco di tempo, le microspie che avevano piazzato negli uffici dei principali politici italiani, avevano rivelato i contatti, riunioni comprese, che Andreotti intratteneva con i capi della mafia». Una volta tornato dal viaggio, il politico ex Idv, oggi tra le fila del Pd, parlò della disponibilità dell’agente Giraldi di venire in Italia a deporre, ma Giancarlo Caselli e gli altri inquirenti gli dissero che a causa del Ne bis in idem era ormai era troppo tardi. Altra cosa abbastanza risaputa, stando a quanto dichiarato oggi in aula da Arlacchi, era che il Ros, e in particolar modo l’allora colonnello Mori, avesse un rapporto confidenziale con Vito Ciancimino. «Ritenevamo fosse una strategia investigativa sbagliata o, meglio, vecchia, perché c’erano già i pentiti da tanti anni. Consideravamo Ciancimino, già arrestato da Falcone nell’84, un mafioso di dubbia caratura, una carta abbastanza debole da poter giocare. Sapevamo che andava in giro con carte e dossier, cercando di accreditarsi come qualcuno che avesse un certo peso, ma noi non gli attribuivamo grande rilevanza. Ma soprattutto non condividevamo, dentro le Procure e gli apparati investigativi, l’uso dei confidenti, quando avevamo a disposizione tecniche molto più avanzate». Un modo di investigare, quello di Mori, «spregiudicato», a detta di Arlacchi, ma anche, stando a quest’ultimo, dell’allora vice direttore della Dia Gianni De Gennaro. «Tecniche obsolete, nonché dannose, perché potevano fare ingenerare negli interlocutori mafiosi l’idea che loro potessero ottenere dallo Stato più di quanto fosse possibile pensare a quel tempo».
È ancora il termine “trattativa” ad essere al centro dell’esame del pm, parola che compare per la prima volta, nero su bianco, su un documento a firma dello Sco all’indomani delle bombe del ’93, a Milano, Roma e Firenze. Ma Arlacchi è deciso e ribadisce la sua tesi: «Se per trattativa si intende un negoziato fatto in maniera occulta da singoli pezzi dello Stato con un capo della mafia, per indurlo a dare delle informazioni, allora di trattative come queste ce ne sono sempre state; se invece intendiamo per trattativa quello che si intende oggi, e cioè un negoziato a tutto campo, in cui i vertici dello Stato italiano trattano con i vertici di Cosa nostra, a me non risulta ci sia mai stata». Di conseguenza, «il rapporto tra Mori e Ciancimino, era soltanto un rapporto tra un carabiniere – senza nessuna copertura politica – e un confidente. Non si può trasformare questo in una trattativa complessiva dello Stato con la mafia. Non ne ho mai avuto il minimo sospetto».
Il processo è stato rinviato al 29 aprile per la deposizione dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino.