Borsellino Quater, depongono i procuratori Giordano e Petralia
L’esame dei magistrati che, tra i primi, indagarono sulle stragi di Capaci e via d’Amelio e seguirono la pista dei falsi pentiti
Si è svolta venerdì 20 dicembre, davanti ai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta, l’ultima udienza di quest’anno del processo Borsellino quater. Sul banco dei testimoni, i magistrati Francesco Paolo Giordano e Carmelo Petralia, che presero parte alle indagini sulle stragi di Capaci e via d’Amelio insieme ad altri pm, tra i quali Ilda Boccassini; Fausto Cardella; Anna Maria Palma; Pietro Vaccara; e Gianni Tinebra. Si trattava di un vero e proprio pool antimafia, coadiuvato nelle indagini da un gruppo investigativo speciale nominato “Falcone e Borsellino” e composto da una quarantina di soggetti provenienti da tutta Italia e appartenenti alla Polizia e all’Arma dei Carabinieri (riconducibili in particolare al Ros). Tale gruppo era diretto dall’allora capo della Squadra Mobile di Palermo, e poi questore, Arnaldo La Barbera: colui che si è occupato delle indagini, risultate poi un depistaggio costruito ad arte, sulla strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, legate alle testimonianze dei falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Le dichiarazioni dei sedicenti collaboratori allontanarono gli investigatori dalla verità sull’eccidio di via d’Amelio. Quella verità che, a distanza di oltre vent’anni, i magistrati della procura di Caltanissetta tentano di portare alla luce.
Secondo quanto dichiarato da Giordano, oggi procuratore capo di Siracusa, «nel 1992 la Procura di Caltanissetta, quando si ritrovò ad occuparsi delle stragi di Capaci e via d’Amelio presentava delle notevoli lacune organizzative». In organico all’epoca c’erano solo tre sostituti procuratori con un procuratore capo in procinto di andar via perché trasferito a Palermo. La situazione, alla Procura nissena, peggiorò con la strage di via d’Amelio e con le dichiarazioni del pentito Leonardo Messina. Come già detto, a seguire le indagini sulle stragi, c’era Arnaldo La Barbera. «Era il motore delle indagini, un accentratore, una persona riservatissima, che non aveva grande affabilità e cordialità con i colleghi. Aveva una straordinaria memoria, che lo aiutava nelle ipotesi di elaborazioni investigative», ha detto il magistrato nella sua testimonianza, sottolineando come, se da un lato i magistrati della Procura di Caltanissetta avessero fiducia nell’operato di La Barbera, dall’altro non mancavano certo le perplessità riguardanti la cosiddetta “pista Candura”. «Ci rendevamo conto che questo segmento esecutivo (dal procacciamento della 126, al riempimento della stessa con l’esplosivo e il trasferimento della vettura sul luogo della strage) era stato assunto da un gruppo di persone che sostanzialmente non rivestivano un ruolo d’eccellenza all’interno di Cosa nostra. […] Per non parlare del comportamento assolutamente anomalo del Candura, che si lasciò andare ad una serie di esternazioni, una su tutte: “Non li ho uccisi io!”».
«Sul fronte delle indagini, il nervo principale era costituito dalla Polizia di Stato. Successivamente collaborarono anche i Ros, la Guardia di Finanza e la Dia. Anche il Sisde offrì la propria disponibilità a collaborare e a riversare, nelle forme ritenute più adeguate le loro informazioni. Ad una riunione, svoltasi a Caltanissetta – ha ricordato ancora Giordano, rispondendo alle domande del pm Gozzo – prese parte anche Bruno Contrada», che all’epoca era numero 3 del Sisde e che fu poi arrestato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. C’ea inoltre una divergenza di tipo giuridico tra le Procure di Palermo e Caltanissetta: «Mentre Palermo non aveva mai dato nessuna credibilità alle dichiarazioni di Scarantino, nemmeno nel settore degli stupefacenti, noi invece avevamo accolto la tesi della frazionabilità delle sue dichiarazioni. Se trovavamo un riscontro esterno, le portavamo avanti. Soltanto parecchi anni dopo e dalla lettura dei giornali, ho appreso che la nostra impalcatura era stata smentita, anche per via del nuovo pentito (Gaspare Spatuzza, ndr.)».
Il procuratore di Ragusa Carmelo Petralia, collega dell’aggiunto Giordano al tempo delle indagini su via d’Amelio, ha ricordato come alla Procura nissena arrivarono richieste di collaborazione da tutto il mondo, persino dall’Fbi. «Alla fine di dicembre di quell’anno, si svolse un incontro all’hotel San Michele, a Caltanissetta, in cui era presente anche un gruppo del Sisde. Fra loro c’era anche Bruno Contrada». «L’organico alla Procura di Caltanissetta – ha proseguito il teste, ripercorrendo le fasi iniziali della pista investigativa – era carente all’epoca. Collaboravamo con la Squadra Mobile di Palermo, diretta da Arnaldo La Barbera. C’era anche Gioacchino Genchi, che era il suo più stretto collaboratore. Fra i collaboratori sui quali La Barbera puntava, c’erano anche Ricciardi, Bo e Salvatore La Barbera». I funzionari di polizia Ricciardi e Bo, comparsi davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta lo scorso 26 novembre, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere in quanto imputati di reato connesso.
Petralia ha aggiunto che «durante gli interrogatori di Candura e Valenti (un altro falso pentito, coinvolto anche lui nelle indagini riguardanti il furto della 126 utilizzata come autobomba in via d’Amelio, nonché nipote della proprietaria della vettura, ndr.) non c’erano comportamenti anormali da parte delle Forze di polizia. Non erano collaborazioni né semplici, né cristalline, ma ci aiutavano ad aggiungere qualche tassello in più alla nostra ipotesi investigativa». Ricorda inoltre che «nelle rivelazioni di Vincenzo Scarantino c’era qualche crepa, in particolare sugli spostamenti della 126. Non era una collaborazione lineare, tuttavia c’erano alcuni fattori di riscontro per cui si andava avanti. Le perplessità che emergevano in Procura erano all’ordine del giorno, c’erano momenti di palese incongruenza ed incoerenza, una non compatibilità con collaboratori accreditati. Tuttavia, si stavano anche individuando alcune fonti di riscontro e le perplessità non hanno mai condotto in ogni caso, la Procura nissena, alla decisione di non perseguire più quella pista».