«Borsellino incontrò Mancino due settimane prima di essere ucciso»
Lo ha detto Gioacchino Natoli in aula al processo Borsellino quater, in corso a Caltanissetta. «Con l’ex ministro dell’Interno ebbe un incontro veloce e informale»
«Poco dopo le stragi del ‘92, alla Procura di Palermo si respirava un’aria ancora più tesa di quella che si respira oggi. Le “liti” erano all’ordine del giorno». A parlare è Gioacchino Natoli, all’epoca sostituto procuratore a Palermo e oggi presidente del Tribunale di Marsala, rispondendo questa mattina alle domande dei pubblici ministeri di Caltanissetta, dove è in corso il processo Borsellino quater, volto a far luce una volte per tutte sulla strage di via D’Amelio.
«Due settimane prima di essere ucciso il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino presenziò all’insediamento di Nicola Mancino al Viminale e col neo ministro dell’Interno scambiò soltanto qualche parola di saluto», ha detto ancora Natoli, confermando così quanto già dichiarato in precedenti udienze anche da altri testi. Fu incontro piuttosto breve e informale ed è ancora oggi uno dei punti più controversi del processo sulla trattativa Stato-mafia, in corso a Palermo. Per anni, infatti, Mancino ha negato di aver incontrato Borsellino, fornendo una versione che faceva acqua da tutte le parti. Bisogna attendere il gennaio del 2012 perché lo smemorato riacquisti la memoria: durante un’udienza del processo a carico del comandante del Ros Mario Mori per favoreggiamento a Cosa nostra, Mancino fa marcia indietro e ammette di aver incontrato il magistrato il 1° luglio 1992. «Mentre aspetta di essere ricevuto dal ministro appena eletto, Borsellino sta fumando nervosamente, allorché vede aprirsi la porta del salotto dove sarebbe stato ricevuto e gli appare Bruno Contrada, l’allora numero tre del Sisde. Questo fatto lo meravigliò non poco. Dietro Contrada c’era l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi», racconta Natoli. «Borsellino e Contrada si scambiarono un veloce saluto e nell’allontanarsi Contrada gli disse “So che ha incontrato Mutolo. Si ricordi che in passato mi sono occupato di lui. Se ha bisogno, può rivolgersi a me”». Quella stessa mattina, infatti, il giudice Borsellino stava interrogando il pentito Gaspare Mutolo (condotto insieme al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò, alla presenza dello stesso Natoli e del collega Guido Lo Forte), quando viene interrotto dalla telefonata che lo convoca al Viminale per incontrare il nuovo ministro dell’Interno. Mutolo aveva espressamente detto di voler collaborare con la giustizia a patto di poter rendere dichiarazioni esclusivamente a Paolo Borsellino e in quell’interrogatorio (il primo di tre) emersero diversi nomi di membri delle istituzioni collusi con Cosa nostra. Tra questi, fu fatto anche il nome di Contrada. Dall’incontro al Viminale, «Borsellino tornò parecchio adirato. La collaborazione di Mutolo era appena iniziata e sarebbe dovuta essere coperta da misure di cautela logiche e immaginabili. Anzi, nel caso specifico, sarebbero dovute essere ulteriormente rafforzate, visto il clima che si respirava dopo la strage di Capaci. Invece cautela e riservatezza erano venute meno e questo lo fece andare su tutte le furie. Tanto che – ricorda Natoli – la sera di quel 1° luglio mi chiamò ancora molto agitato, chiedendomi come avesse fatto Contrada a sapere dell’interrogatorio di Mutolo».
Contrada, condannato in via definitiva a dieci di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e libero dal 2012 per fine pena, non godeva di buona fama. di via D’Amelio, ci furono dei “qui pro quo” con alcuni colleghi in Natoli ha ricordato di come Giovanni Falcone avesse invitato gli altri magistrati ad essere «prudenti» nei loro contatti con lui. Anche Aliquò, deponendo pure lui questa mattina, ha confermato la cattiva opinione che il giudice Falcone aveva di Contrada: «Non si fidò mai di lui. Fece il suo nome anche riguardo l’attentato all’Addaura». «Mutolo, in un interrogatorio – ha spiegato Natoli – a me e a Guido Lo Forte, oltre al nome di Contrada fece quello di Mimmo Signorino (magistrato di Palermo che si suicidò poco dopo quelle rivelazioni, ndr), ma in realtà li aveva già fatti alla presenza di Borsellino. In seguito, dopo la strage Procura, tra i quali Scarpinato e Teresi. Scarpinato ci chiese se avessimo verbalizzato qualcosa dell’incontro con Mutolo e in particolare quanto dichiarato su Contrada e Signorino. Ma mai nulla fu messo a verbale. Dopo ¾ d’ora di interrogatorio libero, si interrompeva e quasi sempre Lo Forte dettava e io scrivevo per redigere un verbale riassuntivo, il più possibile aderente a quanto era stato appena detto. Soltanto il 23 novembre del ’92 ci sarà la prima formale dichiarazione di Mutolo».
La gestione della collaborazione del pentito Mutolo è stata da subito motivo di contrasti e tensioni all’interno della Procura di Palermo. L’allora procuratore capo Pietro Giammanco non voleva affidare il boss al giudice Borsellino. I due non erano affatto in buoni rapporti. Erano trascorsi appena una trentina di giorni dall’uccisione di Falcone, con il quale Mutolo aveva avuto già dei contatti nel dicembre del ’91. «Questi, in una lettera del giugno ’92, espresse subito il desiderio di essere interrogato da Borsellino (magistrato che gli era stato “suggerito” dallo stesso Falcone), ma Giammanco disse che un collaboratore di giustizia non poteva scegliersi l’interlocutore. Propose allora la triade Aliquò, Lo Forte e Pignatone. Noi cercammo subito di fargli capire, in una serie di riunioni formali e scontri frontali, che non era opportuno interrompere la linea che aveva portato grandi frutti. Fu così che gli interrogatori del pentito furono affidati a Borsellino e Aliquò. Gli venne affiancato Lo Forte e fu lo stesso Borsellino a manifestare la volontà che nel gruppo entrassi anch’io».
In merito al rapporto tra mafia e appalti, il teste Natoli ha riferito che, dopo la strage di Capaci, Borsellino aveva fissato un appuntamento con alcuni ufficiali del Ros, perché doveva ritirare il relativo dossier. Alla Procura di Palermo mancavano circa 900 pagine del rapporto, in cui venivano riportate decine di trascrizioni di intercettazioni, che invece erano state depositate alla Procura di Catania. «Ritengo fosse arrivata a Palermo una copia del rapporto, epurato di centinaia di intercettazioni. A Catania arrivò invece una copia più ampia alla quale erano allegate delle intercettazioni che contenevano delle responsabilità di tipo politico che a Palermo non furono consegnate. A Borsellino quel rapporto interessava per capire quale potesse essere stata la genesi della strage di Capaci».
Anche l’ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti ha deposto stamattina a Caltanissetta, al processo Borsellino quater. «Dalla fine del 1991 c’erano delle informative, raccolte dalle forze di polizia e dai servizi segreti, secondo le quali ci sarebbe stata una campagna stragista, avendo ad oggetto uomini delle istituzioni. Venivano indicati attentati anche nei confronti di uomini politici, in particolare democristiani e socialisti».
«La lotta alla mafia – ha aggiunto – iniziò con l’approvazione di un decreto legge, dell’8 giugno ‘92, ai limiti dell’incostituzionalità, firmato dall’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Quel decreto, che Cossiga definì alla stregua di un “mandato di cattura”, impedì di liberare imputati già condannati al maxiprocesso. Nella lotta alla mafia ottenni, fra il ‘90 e il ‘92, la collaborazione del ministro della Giustizia, Claudio Martelli e del giudice Giovanni Falcone, che era alla direzione generale degli affari penali al Ministero. Vennero adottate diverse misure che subirono resistenze, contrasti e anche delle modifiche in Parlamento. Contrasti insorti per il maxi processo e per i metodi da adottare nella lotta alla mafia».