A Palermo si tifa per Nino Di Matteo
Nessuna parola di solidarietà da parte del presidente della Corte d’Appello siciliana all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ci pensano i tifosi a manifestare il loro sostegno al magistrato minacciato dalla mafia
Il clima di tensione che si respira in questi mesi a Palermo, dove è in corso il processo sulla trattativa fra Stato e mafia, rimanda tristemente a quello di oltre vent’anni fa. I magistrati che indagano su quel patto scellerato sono oggetto di continue minacce da parte dei mafiosi (a cui qualcuno consente di lanciare ordini di morte persino dal 41 bis), mentre le Istituzioni tacciono, diventando esse stesse complici di quel tentativo di delegittimazione e isolamento che tanto piace a Cosa nostra. Soltanto dopo mesi di inspiegabile e assurda attesa, sono arrivate le prime parole di sostegno ai pm da parte del presidente della Camera Laura Boldrini (espresse attraverso un tweet), seguite questa mattina dal presidente del Senato Piero Grasso, oggi a Palermo per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Mai una sola parola di solidarietà è giunta dal capo dello Stato Giorgio Napolitano. Se proprio non vuole pronunciarla, che la scriva almeno nero su bianco. E poi magari spedisca la lettera alla Procura. D’altronde i magistrati palermitani hanno già avuto modo di “apprezzare” la lettera con la quale cercava di non deporre come testimone al processo sulla trattativa. Non dimentichiamo nemmeno il presidente della Corte d’Appello siciliana Vincenzo Oliveri che, sempre questa mattina, alla cerimonia inaugurale del nuovo anno giudiziario, ha espresso tutta la stima proprio per Napolitano, sostenendo nei suoi confronti «un debito di riconoscenza», ma non facendo lo stesso per Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene, seduti anche loro fra gli scranni dell’aula del Palazzo di Giustizia. Scopriamo, così, che anche il silenzio può avere la sua eco: alle parole non dette durante il messaggio di fine anno del Capo dello Stato, risuonano adesso quelle dell’alto magistrato Oliveri, che però ha avuto anche il tempo di bacchettare Antonio Ingroia, che da procuratore aggiunto aveva coordinato le indagini sulla trattativa. A chi d’altronde, se non al leader di Azione Civile, si riferisce quando afferma: «No all’esposizione mediatica, no a comportamenti impropri, no a carriere politiche nel distretto dove il giorno prima si indossava la toga».
Il clima, dicevamo, è lo stesso di quello che precedette le stragi del ’92. Falcone e Borsellino furono sottoposti allo stesso isolamento. Invisi al potere, temuti dalla politica, invidiati dai colleghi. E in quel contesto la gente comune stava a guardare. Qualcuno parlava, è vero, come quella signora che scrisse al Giornale di Sicilia per lamentarsi delle sirene delle auto di scorta dei magistrati che le impedivano di guardarsi in santa pace la tv. Allora non c’erano manifestazioni e sit-in, né tantomeno scorte civiche. Mancava il coraggio e, forse, anche una bella dose di consapevolezza di quello che realmente significava essere magistrato antimafia a Palermo a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90. La presa di coscienza avvenne dopo. Quando si cominciò a perdere il conto dei chili di tritolo versati sulla città e giudici, poliziotti e persino sacerdoti, da morti, venivano eletti eroi.
Eppure qualcosa è cambiato. Qualcosa contro la quale, molto probabilmente, nemmeno Totò Riina si aspettava di dover fare i conti. Non si spiegherebbe altrimenti la rabbia del boss emersa dalle intercettazioni ambientali fra lui e il capomafia della Sacra Corona Unita Alberto Lorusso. «Ma perché questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato? A tutti … ammazzarli, proprio andarci armati e vedere … Si ingalluzziscono, proprio si ingalluzziscono… perché c’è la popolazione che li difende, che li aiuta. Quelli però che devono andare a fare la propaganda là, sono quelli che devono andare a fare la propaganda. Hanno lo scopo in testa per una strumentalizzazione…e le persone sono con loro».
Se non ci fosse la popolazione a difenderli, questi magistrati sarebbero davvero soli. Oggi la gente scende in piazza, organizza mobilitazioni da Nord a Sud, partecipa a incontri e dibattiti, è presenza costante alle udienze. Una presenza che è riuscita a farsi spazio anche in un luogo dove fino a pochi anni fa era facile vedere esposti striscioni dai messaggi inequivocabili. Il 22 dicembre del 2002, in occasione della partita Palermo-Ascoli, i tifosi rosanero (rivelatisi poi boss di Brancaccio) appesero in curva un lungo striscione contro il 41 bis, recante pure un ammonimento contro l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, “colpevole” di aver «dimenticato la Sicilia». Il 12 gennaio 2003, dalla curva Andrea Costa dello stadio Dall’Ara, verso la fine di Bologna-Milan, fece capolino un altro striscione: «Per la libertà d’espressione, solidarietà agli ultras palermitani». Gli investigatori accertarono che il riferimento dei tifosi emiliani era il messaggio contro il 41 bis esposto al Barbera. Inutile dire che da parte del Governo, e soprattutto da parte di Berlusconi – oggetto del messaggio forse più ambiguo –, seguì il solito silenzio. Nei confronti dei mafiosi e, ciò che è peggio, anche verso la controparte onesta, rappresentata in questo caso dai magistrati. Il 23 settembre 2008 fu la volta del San Nicola. Nel secondo tempo di Bari-Livorno, gli ultrà del Bari esposero uno striscione con su scritto: «Marino sempre con noi». Ne seguì uno scrosciante applauso della Curva Nord. Il riferimento era chiaramente al pregiudicato 31enne Marino Catacchio, freddato qualche giorno prima da un colpo di pistola per un regolamento di conti all’interno del clan mafioso Strisciuglio. Tuttavia le cose, per fortuna, stanno cambiando anche tra gli spalti, dove sempre più tifosi dimostrano apertamente il proprio rifiuto al binomio calcio-mafia. Già lo scorso 21 dicembre, allo stadio Cabassi di Carpi, i tifosi del Palermo in trasferta avevano esposto uno striscione recante il messaggio «Pm Di Matteo siamo con te». E oggi, in occasione della partita in casa contro il Modena, non è certo passato inosservato lo striscione «Forza N. Di Matteo. Tifiamo x te». L’autore è il palermitano Armando Carta, uno dei più strenui sostenitori dei magistrati minacciati dalla mafia, immancabile a cortei e presidi insieme ai suoi ormai inconfondibili cartelli. In pochi, per la verità, ne hanno parlato. Di certo non l’hanno fatto le televisioni nazionali, che invece dieci anni fa diedero ampio spazio al famoso «Uniti contro il 41 bis». Sarebbe auspicabile, al contrario, che almeno per una volta i telegiornali della tv di Stato e quelli del gruppo Mediaset, ma non solo, dessero anche loro un forte segnale contro l’isolamento in cui versano i magistrati sottoposti a pesanti intimidazioni. Anche l’informazione deve fare la sua parte. Un primo passo potrebbe essere smettere di parlare di “presunta” o “ipotetica” trattativa, anche in rispetto alla sentenza Tagliavia emessa nel 2012 dalla Corte d’Assise di Firenze: «Una trattativa tra mafia e istituzioni indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un ‘do ut des’. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia» e «l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi».