17 aprile referendum, decido io.
A favore o contro il rinnovo alle compagnie petrolifere delle concessioni estrattive di gas e petrolio.
Il 17 aprile gli elettori italiani sono chiamati al referendum abrogativo, chiesto da 9 Regioni. Materia della consultazione popolare sono i permessi petroliferi in Italia e il quesito referendario chiede di esprimersi a favore o contro il rinnovo alle compagnie petrolifere delle concessioni estrattive e di ricerca di petrolio e gas nelle acque territoriali italiane.
Il comma 239 dell’art. 1 della legge di Stabilità, promulgato il 28 dicembre 2015, infatti, consente alle società che hanno già ottenuto una concessione di coltivazione e di ricerca entro le 12 miglia dalla costa di proseguire l’attività “per la durata di vita utile del giacimento”, in pratica ha eliminato le scadenze previste dalla legislazione precedente. Tale normativa, annullata dalla legge del 28 dicembre, permetteva l’estrazione di petrolio e gas per una durata trentennale, con eventuale ed unica proroga di altri 10 anni; concedeva l’attività di ricerca per una durata di 6 anni, con al massimo la possibilità di due proroghe della durata di 3 anni ciascuna. Adesso le compagnie hanno la facoltà pratica di appropriarsi di una risorsa pubblica, di un bene demaniale a tempo indeterminato, di cui solo loro, e nessun altro, stabiliranno la durata.
E’ evidente il favore riservato dal legislatore alle compagnie, Eni, Edison, colossi industriali e finanziari, nazionali e internazionali: qualunque altra nuova concessione entro le 12 miglia marine è vietata, mentre le società già concessionarie potranno continuare ad estrarre il minimo indispensabile per il maggior tempo possibile, evitando di dismettere gli impianti, operazione che comporta costi altissimi. E tali favori si aggiungono ai tanti vantaggi che le compagnie petrolifere detengono: non pagano le royalties se producono meno di 20mila tonnellate di petrolio su terra e meno di 50mila in mare, ma rivendono a prezzo pieno; qualora superassero le soglie scatterebbe una ulteriore detrazione di circa 40 euro a tonnellata; vige poi l’esenzione dal pagamento per le produzioni in regime di permesso di ricerca; ricevono sussidi indiretti e altre agevolazioni fiscali. Legambiente ha quantificato tali aiuti in circa 2,1 miliardi di euro, diretti o indiretti, all’anno.
A questo punto è d’obbligo chiedersi la ragione di tali e tanti privilegi accordati a gruppi potentissimi: quali ricavi e quali risparmi di costi il legislatore voglia assicurare alla collettività, compito che gli compete. Va, a tal proposito, ricordato che il governo italiano ha preso solenni impegni a Parigi, alla Cop 21, nel consesso delle Nazioni, per contribuire a portare l’umanità e il pianeta rovente fuori dall’era dei fossili. Quale, dunque, altra questione urgente ed essenziale preme e forza ad andare, in questa occasione, contro quell’obbligo politico ed etico?
I sostenitori del mantenimento delle concessioni parlano di necessità di salvaguardare i livelli occupazionali, di dovere di scongiurare le conseguenze derivanti dalla dismissione e vale a dire l’aumento consistente delle importazioni, e dunque un rilevante nocumento economico; asseverano inoltre come il prosieguo delle attività estrattive comporti mancanza di rischi e di danni maggiori derivanti dalle imprese di estrazione e ricerca.
Intanto quantifichiamo il fenomeno: sono 35 le concessioni di estrazione di idrocarburi, 9 d’esse sono inattive, improduttive, sospese; le altre 26, tutte invece attive, sono distribuite tra il mare Adriatico, il mare Ionio e il canale di Sicilia, per un totale di 79 piattaforme e 463 pozzi. I permessi di ricerca ancora vigenti e che dunque adesso non dureranno solo 6 anni, con massimo 2 proroghe di 3 anni ciascuna, per un totale di 12 anni, ma permanentemente sono 9. 4 nell’alto Adriatico, 2 nell’Adriatico centrale, di fronte alle coste abruzzesi, 1 in Sicilia, tra Pachino e Pozzallo, 1 di fronte alla costa di Sibari, in Calabria.
Da tali giacimenti si ricava il 27% del totale del gas e il 9% del greggio estratti dal nostro territorio; la produzione d’essi, rispetto al fabbisogno nazionale incide per meno dell’1% per il petrolio e del 3% per il gas. L’Ufficio minerario per gli idrocarburi e le georisorse del Ministero dello Sviluppo Economico stima rimangano riserve certe, sotto i fondali marini italiani, sufficienti a soddisfare il fabbisogno di petrolio per solo 7 settimane e quello di gas per appena 6 mesi.
I fautori delle trivellazioni battono sul tasto della difesa dei posti di lavoro. Il segretario dei chimici della Cgil, Emilio Miceli, afferma che votare “no” tutelerebbe migliaia di posti di lavoro, nella provincia di Ravenna parlano di 7 mila persone impiegate nel settore dell’offshore. I sostenitori del “sì” dicono che non si determinerà alcuna cessazione immediata delle attività di estrazione, che proseguirebbero fino alla loro scadenza in un arco di tempo che oscilla da un minimo di 1 anno e 3 mesi a un massimo di 11 anni: una vita residua media di 5/6 anni che sarebbe più che sufficiente per riqualificare il settore, che, fra l’altro, assicura una produzione già adesso, come sopra detto, bassa.
Considerando il sistema economico nel complesso, occorre sottolineare ancora il caso di Ravenna. Le estrazioni di acqua e gas dal sottosuolo stanno accelerando il fenomeno della subsidenza, vale a dire che sui fondali compresi tra i 4 e i 6 metri si sono prodotti abbassamenti superiori a 2 metri. Un danno grave per spiagge e suolo di una delle zone a più alto sviluppo turistico: la bellezza e il richiamo del paesaggio e delle attività di balneazione sono tra le nostre maggiori risorse. Il governo croato, dal lato opposto dell’Adriatico, ha bloccato ogni progetto di coltivazione per difendere il turismo.
Coloro che caldeggiano la durata a tempo indeterminato dei permessi di coltivazione e ricerca in mare giudicano prive di pericoli tali attività. Tuttavia la concessione “Rospo Mare”, di Eni ed Edison in Abruzzo, a pochi chilometri dalle Tremiti e a poche miglia dal parco marino di Punta Penne, ha causato in soli 8 anni due sversamenti e soltanto nel 2013 sono finiti in mare mille litri di idrocarburo, è stato sfiorato un disastro ambientale in Adriatico. Ed Eni ed Edison, nel caso di vigenza della norma sottoposta a referendum, possono aprire nuovi pozzi e piattaforme e andare avanti per tutto il tempo che ritengono, senza più alcun nuovo atto autorizzativo, alcun controllo pubblico e senza alcun vincolo di interesse ambientale da tutelare. E ciò che sta emergendo dall’inchiesta della procura di Potenza su disastro ambientale, rischi per la salute dei cittadini e ipotesi di corruzione, a causa delle concessioni di estrazione in Basilicata rilasciate alla Total, non tranquillizza certo sull’affidabilità di petrolieri e pubblici amministratori.
Quanti si oppongono all’art.1 della legge del 28 dicembre scorso, denunciano il fenomeno delle “acque di strato” contenenti idrocarburi, essendo estratte insieme ad essi, e che vengono rilasciate in mare con evidenti conseguenze di inquinamento delle acque.
Le piattaforme delle compagnie vanno da Termoli a Marina di Ragusa, da Gela a Marina di Ravenna e funzionano quasi tutte in remoto, telecomandate a distanza. “Decine di nuovi progetti offshore stanno nascendo davanti alle nostre coste, nonostante l’opposizione di coloro che vivono sul mare: comitati di cittadini, pescatori, ambientalisti. Secondo il governo questo porterà ricchezza e nuovi posti di lavoro. Noi vogliamo capire cosa si nasconda dietro questo business”, ha scritto su Indiegogo il giornalista Marcello Brecciaroli. Di certo c’è che tutta la comunità scientifica è ormai concorde nel ritenere che l’energia da giacimenti fossili ha prodotto danni gravissimi all’ambiente, alla prossima qualità della vita sul pianeta, alla sopravvivenza di intere specie viventi e sta causando preoccupanti mutamenti climatici e che se non si rimedierà con una radicale e urgente inversione di tendenza, essi risulteranno distruttivi per il futuro anche del genere umano.