Pubblicato: Mar, 10 Feb , 2015

Io, Claudio, sopravvissuto alla Foibe.

Il mio ricordo di bambino “italiano”, tra fuga ed esilio.

Di Dalila Ferreri –

Raggiungo Claudio Smareglia, classe 47’. Mi accoglie nel reliquario di memorie che è diventata la sua casa dopo il grande esodo del 45’. La sua italianità, il senso di appartenenza sono vivi, in un presente che di quel passato ha solo il rammarico di essere potuto andare diversamente.

Era l’8 Settembre del 43 quando Pola, ex capoluogo dell’Istria, cessa di essere Stato italiano. Territorio di confine, nell’800’ fu sede (per via delle trattative di predominio nel Mar Adriatico orientale) di flussi migratori. I primi nella città istriana, risalgono al tempo di Diocleziano.

Nel 1915 l’Italia, sotto il regno austro-ungarico, entra in guerra. Gli accordi previsti dal Trattato di Rapallo, firmato dall’asse delle Triplice Intesa, da un lato sfaldano l’impero austriaco dall’altra irretiscono la minoranza slava. L’Istria diventa italiana. La Dalmazia si slavizza, a eccezione di Zara e Fiume, diventata famosa per la campagna propagandistica d’annunziana. Dal 18’ al 45’ le terre istriane hanno avuto culture, appartenenza, costume, cibo e tradizioni italiane” dichiara Claudio.

Tra il 20’ e il 36’ in Europa, in Russia nasce il comunismo dei soviet e in Italia trionfano le idee politiche del duce Mussolini. “La mia famiglia è antifascista. Mio padre, Giulio, è professore di Lettere e Filosofia. Possiede una libreria nella cittadina di Pola. La guerra finisce. È il 1943.

Il malcontento portato dalle campagne spietate di Mussolini, fa si che le minoranze slave, ignorate, combattano unanimi contro un patto tradito.

Li i primi infoibamenti? “Si, i primi episodi gravi. Le foibe erano queste cavità naturali, usate per buttare via gente scomoda. Chi era la gente scomoda? Persone che avevano posti d’importanza nella società, italiani per l’appunto. Accadono cose disumane. Vengono infoibati in maniera tragica. Buttati da vivi, dentro le fosse. Ne muoiono in migliaia.

Nel 44’ papà viene internato a Buchenwald, un campo di lavoro tedesco. Sopravvive sino alla fine della guerra. Si nutriva di bucce di patate i gusci delle uova. Mancava il calcio. C’era lo scorbuto. Quando torna è un uomo stanco. Ha 50 anni. E’ il rimasto, quindi “nemico del popolo”.

La seconda guerra mondiale è quasi al termine. Sotto Tito, le truppe partigiane si riuniscono in un’unica sola bandiera, quella comunista. Si voleva fare un’ Istria slava.

Un giorno papà mi raccontò che mentre stava insegnando in aula e parlando di Dante Aligheri, entrò un commissario politico interrompendo la lezione e chiedendogli: di cosa sta parlando professor Smareglia?- Di Dante Aligheri! Rispose – Un tonfo. Il commissario scaraventa i libri per terra. – Qui si parla soltanto di Tito, urlò. Convocato dall’Ozna, gli viene chiesto: -Perché è rimasto qui professore? Sono rimasto qui. E’ l’unica speranza che ho forse, affinché un domani queste terre tornino italiane.

È l’Aprile del 47’. Papà viene imprigionato nel carcere di Pola. Io intanto sono appena nato.

Quali i primi ricordi? Le sue domande da bambino?

Ho un anno. Andavo con mamma a trovare papa in carcere. Ricordo che tiravo i sassi ai poliziotti e dicevo “avete messo in prigione papà mio”.

Cos’ è successo dopo?

Ci hanno tolto tutto. Eravamo apolidi. Vivevamo di aiuti della misericordia degli altri. Non si riusciva a recuperare da mangiare. Avevo due anni e mezzo, mettevo il pane sotto due gocce d’acqua per mangiare qualcosa.

E’ la fine degli anni 49’, inizi 50’. Papà diventa un caso diplomatico. Riaprono le opzioni. Era il sistema attraverso il quale dichiaravi di essere: slavo o italiano. Accade qualcosa: nei documenti il mio nome non figura con quello di mamma. Resto con papà.

La signora Cornelia, madre di Claudio, oggi novantacinquenne, racconta quell’episodio. Mi dissero: “Ha tre giorni per andarsene, si arrangi. –“e il bambino?” risposi. Il bambino rimane qui.

“Eravamo mal visti. Eravamo i rimasti”, mi confida Claudio. Sentitamente italiano fra istriani , slavi, ormai. “Come vorrei essere un albero, che sa dove nasce e dove morirà”, cantava mio cugino Sergio Endrigo. Mi son sentito così. L’emozione prende il sopravvento. “Nel 50 siamo ad Agrado. L’Istria è ormai spopolata. Rimanere avrebbe significato “votarsi a morire. Nel 55 si veniva imprigionati perché considerati spie al soldo dell’imperialismo. Rieducati e ridotti a bestie. Per motivi politici abbiamo fatto perdere all’uomo dignità. Ecco perché il giorno del ricordo delle Foibe è messo a fianco a al giorno della Memoria.

Oggi l’Istria è croata. Nel giorno del ricordo del vittime quale messaggio vuole lanciare alle nuove generazioni?

“Tiriamoci fuori da logiche di guerra. Non auguro a nessuno di provare tutto ciò. Si deve avere diritto a dire che è tutto sbagliato. Vi furono oltre 12.000 morti. Io mi sento italiano, io sono italiano. Centinaia di anni non cambiano la storia. Possono infoibare tutto tranne le pietre.”

Foto di MAT NARDONE

 

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