Stefano Cucchi. Morto di ingiustizia
Rigettate le tesi degli avvocati della difesa, secondo cui il giovane sarebbe deceduto per crisi cardiaca. Per la sorella è una sentenza tutta “all’italiana”
di Matilde Geraci
Secondo la III Corte d’Assise di Roma, Stefano Cucchi è stato ucciso da una «sindrome di inanizione». In pratica, è morto di malnutrizione. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna dei medici che ebbero in cura il giovane. E che arrivano a quasi tre mesi dalla sentenza con la quale sono stati condannati per omicidio colposo il primario Aldo Fierro e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti (per il solo reato di falso ideologico), e assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, nonché gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.
I giudici hanno, quindi, rigettato le le tesi delle difese, secondo le quali Stefano era stato condotto alla morte da un’improvvisa crisi cardiaca. Ancor meno convincenti, stando al parere della Corte, sono le conclusioni dei consulenti delle parti civili, secondo cui il decesso si sarebbe verificato per le lesioni vertebrali. «Anche questa – si legge nella sentenza – presta il fianco all’insuperabile rilievo che non vi è prova scientifico-fattuale che le lesioni vertebrali abbiano interessato terminazioni nervose».
Nel documento di oltre 170 pagine, depositato dai magistrati il 3 settembre, si evince che quanto stabilito dai periti corrisponde a verità. «La sindrome di inanizione (mancanza di cibo e acqua) è in grado di fornire una spiegazione dell’elemento più appariscente e singolare del caso in esame e cioè l’impressionante dimagrimento cui è andato incontro Cucchi nel corso del suo ricovero nel padiglione carcerario dell’ospedale Sandro Pertini».
Nella formulazione del capo d’imputazione, i fatti descritti non solo non consentono «di ravvisare il reato di abbandono d’incapace, del quale non ricorre alcuno dei presupposti oggettivi né soggettivi», ma, cosa più importante, – scrivono ancora i giudici – «non consentono [di rilevare] quello di omicidio colposo».
«È sufficiente fare richiamo – prosegue la III Corte d’Assise di Roma – per escludere la ricorrenza della fattispecie di abbandono d’incapace alla circostanza che praticamente tutti i testi esaminati hanno negato, sostenendo che Cucchi, quantunque gravemente sofferente, fosse portatore di una ridotta capacità psichica».
Inoltre, da parte dei medici non vi sono state condotte volontarie, quanto piuttosto colpose e cioè «contrassegnate da imperizia, imprudenza, negligenza sia per la omissione della corretta diagnosi, non avendo i sanitari individuato le patologie da cui era affetto il paziente, in particolare tenuto conto del suo grado di magrezza estrema, sia per avere trascurato di adottare i più elementari presidi terapeutici che non comportavano difficoltà di attuazione e che sarebbero stati idonei ad evitare il decesso. Ma anche per avere sottovalutato il negativo evolversi delle condizioni del paziente che avrebbero richiesto il suo urgente trasferimento presso un reparto più idoneo».
Infine, per quanto riguarda le condotte dei militari che arrestarono il giovane romano il 15 ottobre del 2009, la Corte ammette che sia «legittimo il dubbio che Cucchi, arrestato con gli occhi lividi e con forti dolori, fosse stato già malmenato dai carabinieri» ancora prima di essere condotto la mattina seguente agli agenti di polizia penitenziaria, che lo portarono nelle celle sotterranee del tribunale di Roma, in attesa della convalida dell’arresto per droga.
«Se qualcosa di anomalo si è verificato, ciò può verosimilmente collocarsi nel lasso di tempo che va tra il ritorno dalla perquisizione domiciliare e l’arrivo della pattuglia in caserma. In via del tutto congetturale potrebbe addirittura ipotizzarsi che Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione atteso l’esito negativo della stessa».
I giudici, pur non escludendo l’ipotesi che Stefano sia stato vittima di un pestaggio da parte dei carabinieri, non indicano – perché non è compito della Corte – chi tra i numerosi militari, quella notte, abbia potuto alzare le mani su di lui.
E, tuttavia, sono le stesse dichiarazioni dei militari, che non escludono la possibilità di prospettare una ricostruzione dei fatti diversa da quella esternata da SamuraYaya, l’immigrato del Gambia che, in qualità di testimone, riferì di aver sentito di un pestaggio nelle celle del tribunale di Roma.
«Si vuole porre così una pietra tombale sulla morte di mio fratello», ha commentato Ilaria Cucchi. «Questa è una tipica sentenza italiana. Smonta l’impianto accusatorio della Procura e, per quanto riguarda il pestaggio, si ipotizza che possa essere stato compiuto dai carabinieri, però senza trasmettere gli atti ai Pm per fare le dovute indagini».
Nonostante la comprensibile rabbia per una verità ancora una volta negata, Ilaria si dice molto serena, perché, se da un lato la sentenza dimostra un chiaro fallimento della Procura di Roma, dall’altro sono così tante le lacune e deboli le motivazioni, da poter essere facilmente impugnata. «Ed è quello che faremo».
Oltre la rabbia c’è, però, la profonda amarezza nel vedere ridotto il “caso Cucchi” in un mero caso di malasanità. Stefano non è morto per le terribili mazzate, ma per un tragico errore sanitario. Si dice che le sentenze non vadano discusse, né commentate. Ma quando si assiste all’ennesimo depistaggio (ne sanno qualcosa i famigliari di Giuseppe Uva e di Federico Aldrovandi), forse per paura di andare a toccare determinati apparati dello Stato, finendo così per coprirne colpe infami, non si può tacere.
In un Paese civile, quale l’Italia si vanta di essere, non si può morire di (una palese) ingiustizia. Per alcune persone la vita di Stefano Cucchi valeva zero. Non permettiamo che la sua morte valga ancora meno.