Pubblicato: Dom, 8 Set , 2013

L’Opinionista del Pallone. Chi è costui?

Un mestiere, nel quale spesso si riciclano anche glorie del calcio di una volta, logorato dalle tante, troppe parole, che levano spazio al vero gioco

 

di Benvenuto Caminiti 

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Fabio Caressa

Ai tempi, mai troppo rimpianti, di Nicolò Carosio e Nando Martellini, l’opinionista (che imperversa ai giorni d’oggi col compito precipuo di parlare a ruota libera solo per spiegare l’ovvio e il lapalissiano, chiaro a tutti i telespettatori, anche i più distratti) non esisteva, perché, allora come oggi, siamo tutti in grado di guardare la partita in tv e capirne i suoi spesso imprevedibili, e per ciò affascinanti, colpi di scena.
E tutto ciò ci bastava, anche perché così avevamo il tempo e la libertà di vederla, la partita, di farci una nostra personale idea, come piace, immensamente piace, a ciascuno di noi. Che siamo, tutti, nessuno escluso, bravi, competenti e superesperti di pallone come se non di più degli allenatori di professione. Quelli che siedono in panchina (si fa per dire, perché di solito sbraitano per 90′ a due centimetri dalla linea della cosiddetta “area tecnica”, agitandosi come invasati, urlando come forsennati, ma è tutta scena perché sanno benissimo che, nel clamore dello stadio, nessuno dei loro giocatori può sentirli).
Ma quello era il calcio di una volta, quello che si guardava, detestava e amava solo andando allo stadio o, tutt’al più, ascoltandone le radiocronache dalla voce inconfondibile di Nicolò Carosio, in piedi ai bordi del campo, nella sinistra la sua brava bottiglia di whisky, a riscaldargli le ossa nelle rigide giornate d’inverno, e nella destra il microfono. Intere generazioni di innamorati del pallone abbiamo avuto solo lui, specie noi palermitani che avevamo un squadra che faceva il saliscendi tra serie A e serie B e, quindi, senza lo stadio, non ne avremmo saputo nient’altro che quel che ne scrivevano il giorno dopo i giornali.
Erano gli anni ’50 e ’60 e Carosio era il nostro mito, inattaccabile, irrinunciabile mito dei sogni “pallonari” di quell’Italia sempliciotta e verace che, anche per questa passione travolgente per il pallone, la Sisal e il “Calcio minuto per minuto” di ogni domenica, imparava a dimenticare le follie della guerra e a ricominciare a da zero. Nostalgia.
Nostalgia che traveste d’azzurro ogni ricordo, anche il più gramo e doloroso. Tanto che, ripercorrendo col pensiero quegli anni, ci sembrano, nell’intricato puzzle che racchiude tutta la memoria rimasta, tramati di tanti colori come un arcobaleno e, invece, erano spesso grigi, se non bui e tetri come le tenebre. Eppure, li rimpiangiamo col cuore gonfio di malinconia, come succede con i sogni più dolci, che ti addolciscono per lunghe ore la notte, poi ti svegli di soprassalto e non ricordi più nulla, sentendo solo nella gola un gusto amaro come il fiele.
Ma dicevo del calcio di una volta, quand’era più immaginato e sognato che visto e analizzato attimo per attimo, gesto per gesto, dalle tante telecamere della tv satellitare e/o digitale, che penetra e viola ogni dettaglio, pur minimo, lo sviscera e lo sbatte in faccia a tutti noi, poveri sognatori di un calcio, che viveva soprattutto di fantasia e immaginazione. A completare l’opera, sono arrivati gli “opinionisti”, quelli che affiancano il telecronista e parlano, parlano, parlano. Senza tregua, senza freni, sovrapponendosi non solo al “povero” telecronista, ma perfino alle immagini, che sono chiare a tutti, perché riprese da cento angolazioni, viste e ripetute in replay, da vicino e da lontano, da destra e da sinistra.
Eppure l’opinionista non si placa, lui commenta l’incommentabile, spiega l’ovvio e il lapalissiano. Lui, deve guadagnarsi lo stipendio che gli passa Sky o Mediaset, e se ne infischia se il telecronista ha già detto tutto sull’azione appena finita. Lui, diventa il protagonista della telecronaca. Lui, ovvero un ex grande giocatore, che si è riciclato in un altro mestiere e, abituato com’era da calciatore, a stare sulla cresta dell’onda, non riesce a fare un passo indietro, quindi, per esibirsi ancora come una volta, parla, straparla, esagera. Ne conosco un paio, tra i tanti, che, oltre che superflui, diventano addirittura dannosi. Almeno per chi ama il calcio, sport semplice e alla portata di chiunque, e vorrebbe seguirlo in pace, senza l’assillo dell’inutile, ininterrotto chiacchiericcio dell’opinionista. Il primo a farne le spese è il telecronista, spesso del tutto all’altezza del compito, se solo l’opinionista glielo permettesse.
Non vorrei fare dei nomi, ma mi tocca, altrimenti ho solo sparato nel mucchio, esercizio che detesto cordialmente: mi piace dir quel che penso, spiegare le mie ragioni e, se del caso, se serve (e qui è quasi d’obbligo) fare anche i nomi. Comincio da Sky, che è senz’altro la “regina” delle pay-tv, oggi “dominatrice” del calcio riveduto e rivisitato attraverso le decine di telecamere speciali di cui dispone. Il “principe” incontrastato degli opinionisti è notoriamente Fabio Caressa, il numero “uno”, quello delle partite – clou del campionato.
Di solito si affianca a un opinionista che considero tra i migliori: Beppe Bergomi, uno sobrio negli interventi e spesso anche tutt’altro che banali, uno che subisce la straripante verbosità di Caressa. Che non si limita – come dovrebbe – a descrivere le fasi della partita, e i nomi dei giocatori in azione, uno per uno, senza confondere l’uno con l’altro (gravissima gaffe, per un professionista del suo calibro). No, lui chiacchiera affabilmente con Bergomi, come si trovassero al bar insieme agli amici a commentare la partita della squadra del cuore: “Bebbe di qua, Beppe di là. Beppe, tu che ne dici, era fuori gioco o no?”. L’altro, quasi subendolo: “Sì, Fabio, di poco ma lo era!”. E via così per l’intera partita. All’intervallo, Caressa, che è un tipo speciale, ripete sempre la stessa frase: “E adesso, l’arbitro manda tutti a prendere un tè caldo.”. O freddo, se è ancora estate.
Poi c’è “il professore Nava”, ex giocatore del Milan di Sacchi: uno fra i tanti buoni giocatori di quel grande Milan. Nava non ha freni, se ne infischia pure del telecronista, lui parla a raffica, e dice sempre cose “strane” per spiegare spesso l’ovvio, che, in definiva, è il fascino vero del calcio, non per nulla lo sport più popolare e praticato del mondo. Ma lui no, lui deve sempre spiegare l’inspiegabile, con un fiume di parole complicate, manco il calcio fosse una scienza occulta, misteriosa, impenetrabile.
Infine, per la RAI – che vanta le migliori voci di sempre per il calcio raccontato ai microfoni, i vari Carosio, Martellini e Pizzul – per le partite della Nazionale è arrivato Beppe Dossena, a suo tempo perfino campione del mondo (Spagna ’82), seppure senza aver giocato mai un solo minuto di quel Campionato – che se ne fa un baffo dei pur “speciali” Caressa e Nava. Dossena è unico, perché riesce a parlare per un’ora e mezza (quanto dura una partita) senza dire nulla, proprio nulla, di utile: solo contorsionismi verbali, frasi fatte, luoghi comuni, il tutto quasi senza tregua, così che è il telecronista – che pure sa fare il suo lavoro – che deve inserirsi quando può. Aspettando i rari momenti nei quali quello tira il fiato!

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