Pubblicato: Lun, 24 Nov , 2025

Libertà di stampa, Italia in caduta libera. Prof. Allotti: occorre legge contro querele temerarie

Negli ultimi anni la libertà di stampa in Italia ha subìto una progressiva erosione. Non è solo una percezione diffusa tra gli addetti ai lavori, ma un dato riportato da Reporters Sans Frontières, che nel World Press Freedom Index 2025 colloca l’Italia al 49° posto, tre posizioni più in basso rispetto all’anno precedente. Una regressione che preoccupa osservatori, istituzioni europee e parte della stessa comunità giornalistica, perché ritenuta il segnale di un deterioramento del pluralismo, dell’indipendenza editoriale e della qualità dell’informazione. L’ambiente nel quale operano le redazioni appare sempre più ostile: interferenze governative, pressioni economiche, intimidazioni fisiche e un uso punitivo degli strumenti legali si intrecciano con un fenomeno meno visibile ma altrettanto corrosivo, quello dell’autocensura. È un clima che incide soprattutto sul giornalismo d’inchiesta, già indebolito da risorse limitate e da un crescente rischio personale.

Anche il quadro europeo non è incoraggiante: il 2025 segna, secondo diverse analisi, uno dei momenti più critici degli ultimi cinquant’anni per la libertà di stampa nel continente. E l’Italia vi si inserisce pienamente. Le tensioni che attraversano il servizio pubblico ne sono un esempio evidente. Negli ultimi anni la Rai è stata al centro di accuse di ingerenze politiche, interventi sugli organigrammi, contestazioni sui programmi di approfondimento e polemiche sulle scelte editoriali. Le proteste interne dei dipendenti hanno portato alla luce un malessere crescente legato alla percezione che l’azienda stia perdendo il suo ruolo di garante del pluralismo per trasformarsi in un terreno di scontro tra maggioranza e opposizioni. Parallelamente, casi di intimidazione e minacce hanno colpito giornalisti impegnati in inchieste delicate. Tra gli episodi più noti spicca quello riguardante Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, sottoposto a pressioni, campagne diffamatorie e atti intimidatori rivolti anche alla sua famiglia. Episodi che confermano quanto sia tuttora rischioso indagare su potere, criminalità, corruzione e apparati dello Stato.

In questo scenario, che molti descrivono come un lento ma inesorabile arretramento, si inserisce però una voce dissonante. Per comprendere se la fotografia fornita da RSF descriva realmente il Paese, abbiamo chiesto un commento a Pier Luigi Allotti, professore di storia del giornalismo e giornalista con oltre vent’anni di esperienza. Allotti invita alla cautela nell’interpretare i ranking internazionali. «Francamente penso che queste classifiche lascino un po’ il tempo che trovano. L’Italia si colloca da sempre tra il 40° e il 50° posto. Ai primi posti troviamo i Paesi scandinavi, che hanno una tradizione di libertà di stampa molto più antica della nostra. Per quanto riguarda l’Italia, la posizione non è molto diversa dagli anni precedenti e manca trasparenza sui parametri utilizzati per stilare la classifica.»

Pur ridimensionando il peso del dato, Allotti non nega le criticità esistenti. «Il problema più serio riguarda le querele temerarie. Io personalmente non ho mai subìto pressioni né da editori né dalla politica, ma chi fa giornalismo investigativo, soprattutto in territori complessi come la Sicilia, è più esposto anche a minacce fisiche. La sola minaccia di una richiesta di risarcimento esorbitante può indurre all’autocensura, soprattutto se non si ha alle spalle una grande struttura. Da anni si discute una legge che però non arriva mai. Basterebbe prevedere che, se la querela è infondata, chi l’ha presentata debba risarcire il giornalista.»  Allotti riconosce inoltre la natura intimidatoria delle SLAPP.

 «Una SLAPP serve proprio a scoraggiare l’informazione scomoda. Un politico visibile, quando querela, crea automaticamente notizia: il solo atto produce pressione. Se lo fa un cittadino qualsiasi, non accade nulla. È una questione di peso mediatico.» Il suo punto di vista disegna un quadro più sfumato rispetto alle diagnosi allarmistiche: da un lato non smentisce l’esistenza di fattori che limitano la libertà di stampa, dall’altro riduce l’impatto simbolico della discesa nelle classifiche internazionali, invitando a valutare la situazione attraverso l’esperienza concreta dei professionisti piuttosto che attraverso indicatori talvolta opachi.

Resta però il fatto che molti elementi critici segnalati dagli organismi internazionali trovano conferma nelle pratiche quotidiane delle redazioni: la tendenza all’autocensura, le minacce che colpiscono i giornalisti investigativi, la fragilità delle piccole testate sottoposte a rischi economici sproporzionati, l’incertezza normativa sul reato di diffamazione e sull’uso politico o intimidatorio delle querele civili. Le tensioni intorno al Garante della Privacy, culminate nelle richieste di dimissioni del collegio dopo un’inchiesta televisiva, hanno aggiunto un ulteriore elemento di frizione nel rapporto tra diritto alla riservatezza e diritto di cronaca, riaccendendo il dibattito sulle interferenze della politica negli organi di garanzia. L’Italia si trova dunque in una fase delicata, segnata da contraddizioni e prospettive divergenti. Da un lato l’allarme delle organizzazioni internazionali e dei giornalisti più esposti; dall’altro la voce di esperti come Allotti, che invitano a contestualizzare i dati e a concentrarsi su problemi concreti come le querele temerarie più che sui ranking. In mezzo, un tessuto giornalistico che continua a produrre informazione di qualità nonostante le difficoltà, ma che rischia di ridurre il proprio raggio d’azione per timore di pressioni politiche, giudiziarie o economiche.

Ciò che tutti concordano nel riconoscere è la necessità di un intervento organico che depenalizzi la diffamazione, limiti l’abuso delle SLAPP, garantisca maggiore indipendenza al servizio pubblico, tuteli i giornalisti minacciati e renda più trasparente la proprietà dei media. La libertà di stampa non è un dettaglio per addetti ai lavori, ma un indice della qualità democratica del Paese. La discesa nelle classifiche internazionali è un campanello d’allarme; il dibattito che ne nasce, anche nelle voci dissonanti come quella del professor Allotti, è la prova che la questione resta aperta, urgente e decisiva per il futuro dell’informazione in Italia.

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