Chiude il museo insulto alla memoria dei briganti
Ha vissuto con sovvenzioni della regione una società privata, la Società Siciliana di Storia Patria ricco di cimeli garibaldini.
di Claudio Licata
Era il 1861. La Lombardia, il Piemonte, il Veneto erano indebitati fino al collo. Le banche sul lastrico non sapevano più come andare avanti. Poco più a sud dello stivale, nel Regno delle Due Sicilie invece, l’economia era in crescita, e le banche ricche d’oro. La real famiglia dei Savoia, non si fece scappare l’occasione di conquistare quel territorio e spacciarla per l’Unità d’Italia. Ad opporsi a tale conquista guidata dal criminale internazionale Giuseppe Garibaldi, si formarono movimenti di cittadini locali a sostegno dell’esercito borbonico. Questi rimasero a lottare per la loro terra anche quando dei Borboni non rimase più nulla. Già allora venivano chiamati briganti, e furono cacciati come volpi, e uccisi come bestie. Quel periodo storico definito Risorgimento, è il più buio degli ultimi duecento anni, per ciò che riguarda il sud Italia. Nonostante questo, a Palermo ha vissuto con sovvenzioni della regione una società privata, la Società Siciliana di Storia Patria cui segretario generale figura Salvatore Savoia che ha gestito il museo del Risorgimento, all’interno del chiostro di S.Domenico, ricco di cimeli garibaldini. La riflessione da fare è se quel museo avesse o meno il giusto nome. Se venisse indentificato nel giusto modo dalle istituzioni e dalla società che ne usufruiva. Perché chiamarla cultura ed esserne fieri e orgogliosi, quando non è altro che un tuffo nel buio concepimento di questa nazione? Questo museo a Palermo così com’era aveva la stessa scioccante valenza di un museo in memoria di Hitler in Israele. E allora invece che museo del Risorgimento poteva dirsi in altro modo, con un significato commemorativo e di rispetto nei confronti di chi in quelle operazioni di conquista territoriale vi è morto cercando di difendersi dal conquistatore del nord. “Io non sapevo che i piemontesi fecero al sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti-terrorismo”, come i marines in Iraq. Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico; o come i marocchini delle truppe francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere l’Italia dal fascismo [.] Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma. E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile. Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila». Un altro preferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire” dall’incipit di Terroni di Pino Aprile. Se si salverà questo museo, che nome dargli, che significato, cosa insegnare alle scolaresche che ci andranno? Penso non si possa continuare ad oscurare la vera storia dell’Unità.