Ora la ‘ndrangheta chiede i diritti d’autore
Minacce nei confronti di un Laboratorio antimafia in cui vengono educati i ragazzi a non ascoltare le canzoni inneggiati alla ‘ndrangheta
Musica e mafia, un binomio per molti innaturale ma che invece nasconde un business e un mezzo di comunicazione e propaganda a cui la criminalità organizzata non vuole rinunciare.
Sono molte le produzioni e gli autori, specie nel sud Italia, che mettono in note i “miti” delle mafie. I titoli e i testi sono più che esemplificativi, ad esempio “cu senti e taci avi sempri paci, cu sentu e dici avi sempre nemici” (chi ascolta e tace è sempre in pace, chi sente e parla ha sempre nemici); oppure la canzone “N’omu d’Onori” (un uomo d’onore), dedicata ai latitanti delle ’ndrine calabresi.
Il mercato di riferimento non è solo la Calabria, la Sicilia o la Campania ma anche la ricca Germania in cui le infiltrazioni delle cosche hanno raggiunti livelli insospettabili e dove questo tipo di canzoni paiono avere grande successo. Ad ascoltarle, oltre gli affiliati emigrati, sono anche i tedeschi che continuano a prendere sotto gamba il fenomeno mafioso nonostante, ad esempio con la strage di Duisburg, questo abbia già dato prova della sua pericolosità; mentre per quanto riguarda le canzoni le derubricano a melodie che raccontano l’animo romantico e folcloristico dei criminali.
Se non fosse già riprovevole l’esistenza stessa di queste “opere” ecco che la faccia tosta (per usare un eufemismo) di questi “artisti” ha toccato il culmine con quanto successo in un laboratorio anti-cosche, ospitato a Reggio Calabria dal “Museo della ‘ndrangheta”. Il laboratorio in questione, dedicato ai ragazzi delle medie e delle superiori, insegna loro a non farsi fare il lavaggio del cervello da queste canzoni, a non mitizzare le cosche, anzi, a non proprio ascoltare queste “hit”. Fin qui tutto bene, finché, nel maggio 2012, Francesco Sbano e Demetrio Siclari, produttore il primo cantante l’altro, arrivando direttamente dalla Germania non si sono presentatati al laboratorio e tra offese e minacce hanno chiesto, per potere continuare l’attività, il pagamento e il rispetto dei diritti d’autore. Lungi dall’essere una normale diffida dall’utilizzare materiale coperto da copyright, l’azione era, per gli inquirenti, un chiaro avvertimento mafioso ed è per questo che la Procura ha aperto le indagini sui due e, avendole chiuse nei giorni scorsi, li ha accusati di “minacce e atti persecutori” nei confronti di alcuni collaboratori del Museo. Se l’inchiesta si allargherà si potrà, finalmente, squarciare un velo su un qualcosa che non è semplicemente un business ma spesso potrebbe essere anche un modo per scambiarsi messaggi in codice tra gli affiliati, fare propaganda e controllare il territorio.