Pubblicato: mar, 3 Mag , 2016

“Women in Hebron”: ricami contro l’occupazione

Uno dei tanti modi per resistere della popolazione palestinese di Hebron

 

Dal 10 al 17 Aprile, tre rappresentanti della cooperativa “Women in Hebron” sono state in Italia ospiti dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus di Firenze. Il programma di incontri è stato molto denso e il tour ha toccato, oltre a Firenze, Colle Val d’Elsa, Viareggio, Pisa, Napoli e Salerno.

_israele-ammette-abusi-su-bambini-palestinesi-Laila e Nawal hanno parlato della cooperativa e di quanto sia difficile vivere sotto occupazione mentre Maysaa ha affrontato la questione dei giovani nella terza intifada.

Hebron è una città della Cisgiordania di circa 200.000 abitanti più, circa, 700 ebrei che vivono all’interno della città vecchia e a cui si devono aggiungere i circa 7.000 ebrei della contigua colonia Qiryat Arba. I coloni hanno occupato i piani superiori delle case e la loro presenza è imposta ai palestinesi dall’esercito che controlla i loro movimenti ed ha chiuso la strada principale, Shuhada Street, rendendo complicatissime le attività commerciali e gli spostamenti da una zona all’altra della città. I palestinesi sono prigionieri in casa propria e per poter entrare ed uscire da un quartiere o dalla città devono esibire il numero che è stato loro assegnato.

Nawal ha raccontato come è nata l’idea della cooperativa; viveva nel paese di Idna e qui aveva un lavoro poi si è sposata e si trasferita ad Hebron dove ha avuto due figli. Man mano che i figli crescevano aveva sempre più tempo libero ed ha pensato di impiegarlo disegnando e producendo oggetti ricamati. Quando ne ha avuto l’occasione ne ha parlato con sua sorella e con delle amiche e così è nato il primo gruppo di 30 donne che è il nucleo fondante della cooperativa.  La scelta del ricamo non è stata casuale, in Palestina, infatti, i ricami sono espressione di una tradizione secolare ricca di significati simbolici e arricchita dalla contaminazione di scambi culturali ed artistici, sia per quanto riguarda la stilizzazione delle forme che per la scelta dei tessuti. Questa tradizione è stata pressoché abbandonata nei primi vent’anni dopo la Nakba, ma negli anni Settanta sono iniziate le prime raccolte fino al continuo e pieno recupero dopo la Prima Intifada dove il ricamo e il recupero diventa un fattore sempre più importante nella conservazione della memoria e dell’identità. Il ricamo ha così assunto la forma di un linguaggio del ritorno, del radicamento ma nello stesso tempo anche della forza e dell’importanza della bellezza e il riappropriarsi di momenti, luoghi e sentimenti di festa. Il cedro, la rosa, la tenda e le numerose figure geometriche realizzate a punto croce si ispirano fedelmente ad antichi modelli conservati nei musei, con simbologie della Palestina storica.

I primi tempi hanno prodotto molti pezzi, ma avevamo dei problema ad inserirsi nella rete commerciale anche perché poche di loro parlavano inglese; è stato un lento crescendo, hanno aperto il primo negozio a Idna poi, nel 2006, Nawal è andata per la prima volta nella città vecchia di Hebron ed ha trovato un deserto cosi ha deciso che i ricami della cooperativa potevano contribuire a dare nuova vita alla città ed ha piazzato un banchino, che, con il tempo, è diventato un negozio, poi due e adesso ce ne sono quattro.

Nawal spiega che c’è una profonda connessione fra ciò che accade a Hebron, l’economia nata dal progetto dei ricami e il rafforzamento della resistenza delle donne; resistenza e economia vanno a braccetto perché il successo del loro progetto commerciale le rende più forti e consapevoli anche all’interno della famiglia e i ricavi della vendita dei prodotti vengono distribuiti fra i membri della comunità. Oggi sono circa  450 le donne che partecipano al progetto.

Laila racconta che la decisione di tenere aperto il negozio nella città vecchia è stata dettata dal desiderio di far vedere ai coloni e ai soldati che non hanno intenzione di arrendersi e che non permetteranno mai loro di appropriarsi delle loro case. Ha riferito che se si allontanassero anche solo per pochi giorni i coloni occuperebbero gli edifici e cambierebbero la serratura impedendo loro di rientrare, ma questo non accadrà mai anche se la paura è immensa perché ci sono arresti e perquisizioni e, ora, anche omicidi.  Il primo giorno del nuovo negozio un gruppo di soldati ha costretto in un angolo un ragazzino ed ha iniziato a picchiarlo; loro hanno iniziato a gridare per attirare l’attenzione, ma i soldati le hanno chiuse dentro il negozio ed hanno arrestato il ragazzo. Questo accade tutti i giorni e ogni volta che i figli escono di casa si vive con la paura che accada loro qualcosa e che non tornino. Nawal e Laila raccontano episodi di violenza e di soprusi, del terrore che è diventato un compagno di viaggio, delle umiliazioni a cui le sottopongono i coloni gettando urina e rifiuti sui loro prodotti in esposizione, ma ribadiscono che non hanno intenzione di arrendersi, puliscono la merce e continuano le vendite perché gli israeliani non devono averla vinta.

La giovane Maysaa ha parlato degli studenti universitari e del perché è nata una terza intifada. Lei è loro coetanea è una studentessa universitaria e ci spiega che sono scesi in strada perché le loro aspirazioni di pace, libertà e benessere nate dagli accordi di Oslo non si sono mai realizzati. Non vedono vie d’uscita, non c’è lavoro, nessuna prospettava per il futuro e gli israeliani hanno cercato questa nuova intifada, quando si sono accorti che il malumore stava crescendo hanno intensificato le umiliazioni, le restrizioni e i controlli arrivando persino a controllare i profili facebook e a convocare in commissariato chi, secondo loro, postava incitamenti alla rivolta. 

Le rappresentanti della cooperativa concordano sul fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese ha deluso il popolo palestinese: ai tempi di Oslo si parlava della costituzione di uno stato palestinese sul 23  per cento della Palestina storica, mentre oggi siamo scesi al 18. L’ANP non sta facendo niente di concreto per arrivare alla libertà e non risponde più alle aspettative della gente comune, i loro desideri di indipendenza e di libertà quindi è diventata un peso. Se pensiamo alla terza intifada possiamo notare che i ragazzi che vi partecipano e gli adulti che li appoggiano non si riconoscono in nessuno partito, sono delusi da tutti e pensano che l’ANP li ostacoli e faccia il gioco degli israeliani; vogliono solo una vita normale e non si fermeranno.

L’appello che lanciano queste tre donne coraggiose ai sostenitori della causa palestinese è un appello alla concretezza, a fare  pressioni sui propri governanti affinché facciano azioni concrete per arrivare all’indipendenza e al riconoscimento dei diritti del popolo palestinese.

Barbara

Associazione italo-palestinese onlus

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