Pubblicato: sab, 17 Mag , 2014

Stato-mafia, Mori parla in aula: «Contro di me solo calunnie»

Al processo trattativa, ascoltato anche l’ex maresciallo Tempesta che smentisce la “primula nera” Bellini

 

mario-mori1-400x200«Contro di me accuse e calunnie senza produrre una prova che sia una, ma ricorrendo esclusivamente ad asserzioni e illazioni, non documentate e a conseguenti deduzioni del tutto improbabili, se non assurde». Così l’ex generale del Ros Mario Mori, imputato al processo per la trattativa Stato-mafia, ieri mattina dall’aula bunker dell’Ucciardone, dove, all’avvio del dibattimento, ha reso dichiarazioni spontanee davanti alla Corte d’assise di Palermo e volte a smontare quelle rese in precedenti udienze dal collaboratore di giustizia Stefano Lo Verso, l’ex boss della famiglia mafiosa di Ficarazzi che ha gestito la latitanza di Bernardo Provenzano tra il 2003 e il 2004.

Secondo Mori, quelle di Lo Verso sono «calunnie, che a lui apparivano rilevanti e significative, in particolare sulla figura di Luigi Ilardo (boss di spicco della famiglia di Caltanissetta, ucciso nel 1996, appena tre giorni prima che iniziasse ufficialmente a collaborare con i magistrati, Ndr), asseritamente apprese da Provenzano, ma in realtà frutto esclusivo di acquisizioni mediatiche». Non solo, ma sempre secondo quanto letto in aula dall’ex ufficiale dei carabinieri, quelle dichiarazioni furono aggiunte dal pentito soltanto dopo che la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo disponesse il sequestro di beni nei suoi confronti. Sta di fatto che le dichiarazioni di Lo Verso rese al processo Mori-Obinu per la mancata cattura di Provenzano nell’ottobre del ’95 nei pressi di Mezzojuso, si inseriscono nel più ampio scenario della trattativa Stato-mafia, in cui, come detto sopra, Mori è ancora tra i principali imputati. Proprio il mese prossimo inizierà contro di lui il processo d’appello per il mancato arresto del boss corleonese. I magistrati inquirenti identificano in Mori «il potente dell’Arma» che avrebbe assicurato il mantenimento dello stato di latitanza del capomafia, in nome del patto scellerato stretto tra apparati deviati dello Stato e Cosa nostra.

Terminato l’ascolto delle dichiarazioni dell’ex generale, si è proceduto all’esame di Roberto Tempesta, ex maresciallo del Nucleo tutela patrimonio artistico dei carabinieri, che nel 1992 contattò la “primula nera” Paolo Bellini per infiltrarlo in Cosa nostra.

Il teste, oggi in congedo, ha smentito il racconto dell’ex militante di Avanguardia Nazionale. Secondo Bellini fu Tempesta a chiedergli di infiltrarsi «nella tana del lupo» con la scusa del recupero delle opere d’arte rubate alla Pinacoteca di Modena, in cambio degli arresti ospedalieri per 5 personaggi di «grossissimo livello mafioso»: Luciano Leggio, Pippo Calò, Giacomo Giuseppe Gambino, Antonino Marchese e Bernardo Brusca. L’ex luogotenente dei carabinieri ha raccontato invece, rispondendo alle domande di pm Di Matteo, Teresi e Del Bene, che fu Bellini a proporgli il suo infiltrarsi in Cosa nostra, grazie alle conoscenze che aveva con certi personaggi siciliani. «Il 25 agosto 1992 andai agli uffici di Ponte Salario (quartier generale del Ros, Ndr), per incontrare l’allora colonnello Mori e gli dissi di aver contattato Bellini per ritrovare le opere d’arte rubate dalla Pinacoteca Estense di Modena. Bellini mi aveva proposto di farmi recuperare 17 dipinti, di cui mi mostrò le foto, e in cambio, per conto di queste persone, chiese gli arresti ospedalieri o domiciliari di cinque figure. Mi diede persino un biglietto con scritti cinque nomi». Una sorta di “papello” che, secondo gli inquirenti, avrebbe dovuto sancire l’inizio di una trattativa tra mafiosi ed esponenti dei carabinieri.

Se per Bellini fu Mori a decidere la sua infiltrazione, Tempesta ha riferito di come l’ex ufficiale del Ros, alla vista di quel bigliettino, «che poi tenne con sé», disse che «la cosa non era minimamente praticabile, poiché si trattava del Gotha di Cosa nostra». «Io chiesi comunque che su Bellini fosse fatta una valutazione accurata. Qualora fosse stato valutato positivamente, io avevo dato la mia disponibilità ad essere “specchietto per le allodole”. Mi disse che alla prima favorevole occasione avrebbe mandato qualcuno a parlare con Bellini. Mi fece il nome di Ultimo. Raccontai al colonnello anche di quel che Bellini mi disse sui monumenti, sulla Torre di Pisa e le spiagge di Rimini. Io non capivo dove volesse andare a parare. Mori mi fece capire che forse lui aveva intuito qualcosa, ma io non chiesi più nulla».

Tempesta ha ribadito inoltre che il primo incontro con “Aquila selvaggia” Bellini, avvenuto tra marzo e aprile del ’92 a San Benedetto del Tronto, fu del tutto casuale. «In quel periodo c’era stato il furto alla Pinacoteca di Modena e avevamo elementi per pensare che gli autori potessero essere persone vicine al gruppo della mala del Brenta di Felice Maniero. In quella occasione parlai del furto genericamente e mi chiese se c’era un premio in denaro per il ritrovamento della refurtiva. Ci incontrammo una seconda volta dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio e fu allora che gli diedi le fotografie delle opere d’arte da recuperare». Il terzo appuntamento tra i due è datato 12 agosto 1992 e avvenne presso l’area di servizio “Tevere”, lungo l’autostrada Roma-Firenze. «Fu lui a chiedermi un incontro tramite contatto telefonico – prosegue il teste – dicendomi che c’erano delle novità urgenti sulle opere d’arte. Esordì dicendomi che era sconvolto per quanto avvenuto in via D’Amelio e che voleva fare qualcosa. Disse che aveva conosciuto delle persone in Sicilia mentre era detenuto in carcere e che poteva acquistare la fiducia di queste persone, mi dice che non è riuscito a trovare i quadri di Modena, ma che in compenso ha rinvenuto altre 17 opere d’arte. Mi mostrò anche delle immagini di uno di questi quadri, diviso in quattro polaroid, tanto era lungo. Mi disse che erano queste persone siciliane ad aver messo a disposizione queste opere e che lui si era presentato loro come persona con grosse entrature nello Stato, in modo da acquisire fiducia. Quindi mi dice che loro avrebbero permesso il recupero dei quadri in cambio degli arresti domiciliari o della libertà provvisoria libertà condizionata, anche solo di mezz’ora, di almeno uno tra cinque detenuti scritti in un bigliettino colorato, tipo post-it. Aggiunge di voler far ciò per acquisire fiducia e in quel modo conoscere i futuri obiettivi da colpire in modo da prevenire in tempo utile qualsiasi cosa».

L’incontro, stando a quanto raccontato da Tempesta in aula, si protrasse per circa un’ora e Bellini voleva che fosse lui a seguire la sua infiltrazione, «in quanto si fidava di me, ma io gli dissi che non avevo le capacità organizzative e conoscitive per seguire la vicenda. Gli dissi anche che secondo me la strada non era facilmente percorribile. Ed è a questo punto che lui mi disse una cosa del tipo: “Se tu dici che si preparano attentati ai monumenti non saresti legittimato a seguire la situazione?”. E poi mi dice un discorso simile “Ti immagini che effetto destabilizzante si avrebbe se di punto in bianco nelle spiagge come Rimini si trovano aghi infettati d’Aids e poi si sparge la voce, o se vogliono buttare giù la Torre di Pisa?”. Io intesi queste cose come per indurmi a seguire la sua infiltrazione, ma io non potevo, così dissi a Bellini che avrei parlato con i vertici del Ros». Come in effetti avvenne, alla fine dell’agosto ’92, un mese prima dell’ultimo incontro con Bellini ad Assisi, presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli, prima che questi venisse arrestato e condannato a cinque anni di reclusione dalla Corte di assise d’appello di Firenze per ricettazione di mobili e oggetti d’antiquariato.

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