Pubblicato: ven, 4 Lug , 2014

Stato-mafia, Avola: «Dovevamo uccidere anche Antonio Di Pietro»

Alle riunioni di Cosa nostra presenti anche i fedelissimi di Berlusconi: Cesare Previti e Marcello Dell’Utri

politica-abruzzo_antonio-di-pietro-favorevole-all-unione-tra-abruzzo-e-molise«Dovevamo uccidere il magistrato Antonio Di Pietro. C’era stato chiesto durante un incontro, organizzato all’hotel Excelsior di Roma, al quale parteciparono Cesare Previti, il finanziere Pier Francesco Pacini Battaglia, il boss catanese Eugenio Galea, il luogotenente di Nitto Santapaola Marcello D’Agata, Michelangelo Alfano (“uomo cerniera” tra le cosche palermitane e quelle messinesi, ndr) e un certo Sariddu che poi ho scoperto essere Rosario Pio Cattafi, soggetto vicino ai Servizi segreti». È quanto ha sostenuto, deponendo in videoconferenza al processo sulla trattativa Stato-mafia, l’ex boss catanese Maurizio Avola. «L’omicidio era voluto e sollecitato dal gruppo politico-imprenditoriale presente a quella riunione», ha spiegato il collaboratore, che ebbe notizie del progetto da D’Agata in epoca successiva alle stragi. In particolare, il piano per eliminare l’ex pm sarebbe dovuto rientrare in «uno dei favori che Cosa nostra doveva fare ai politici, al fine di tutelare presunti interessi illeciti di Bettino Craxi e dello stesso Cesare Previti, messi in pericolo dalle indagini del magistrato». «Autentiche farneticazioni che pretenderebbero di coinvolgermi in contesti e vicende con le quali non ho alcun collegamento e in fantomatiche riunioni e richieste alle quali ovviamente non ho mai partecipato e delle quali non ho mai avuto alcuna conoscenza», aveva già in mattinata replicato l’ex ministro della Difesa Previti alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia.

Tuttavia Avola, di quel «disegno politico di una lobby imprenditoriale dietro le stragi del ’92-‘93», in cui «personaggi dell’alta finanza, della politica e dei Servizi deviati stringono un patto con Cosa nostra», ne ha parlato sin dall’inizio della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria, e cioè dal 1994, come aveva già raccontato di alcune riunioni svoltesi nel Messinese, durante le quali era presente anche un altro uomo molto vicino a Silvio Berlusconi, oggi detenuto in via definitiva a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, e cioè Marcello Dell’Utri: «un semplice affiliato che non faceva però parte di Cosa nostra – sottolinea il pentito – ma amico di Totò Riina». «Eravamo agli inizi degli anni ‘90 e Nitto Santapaola era latitante nella provincia di Messina. Anche lui avrebbe preso parte a quegli incontri organizzati con Dell’Utri. I motivi delle visite di Dell’Utri in Sicilia erano due: porre un freno agli attentati organizzati da noi catanesi contro la Standa e pianificare una serie di investimenti della mafia nei Paesi dell’Est».

L’ex killer risponde alle domande del sostituto procuratore Francesco Del Bene e ricorda di esser venuto a conoscenza della nuova strategia stragista di Cosa nostra dai boss catanesi Aldo Ercolano (nipote e vice di Nitto Santapaola) ed Eugenio Galea, che avevano partecipato alla ormai famosa riunione tenutasi ad Enna nel ’91 e presieduta da Salvatore Riina. In quell’occasione si era deciso di «togliere il vecchio», perché «i vecchi parlamentari democristiani e socialisti non avevano mantenuto le promesse fatte, ma presto ci sarebbe stato un vento nuovo in Sicilia, che avrebbe portato solo benessere». Perché questo fosse possibile, «bisognava attaccare lo Stato e dimostrare che Cosa nostra era in grado di scatenare una guerra anche contro i civili, mettendo delle bombe in varie città». «Il vento nuovo» era costituito dal «nuovo partito che stava nascendo (Forza Italia, ndr) e nel quale si sarebbero potuti inserire degli uomini di Cosa nostra incensurati, in modo da poter curare direttamente gli interessi di Cosa nostra». È ancora Galea che confida ad Avola che «si stava aspettando un segnale forte da Dell’Utri e dal massone Michelangelo Alfano». Intanto, tra fine aprile e inizio maggio ’92, l’ex killer catanese viene spedito a Firenze per studiare gli eventuali obiettivi da colpire attraverso veri e propri atti intimidatori e attentati di tipo terroristico, «da rivendicare con il nome di Falange Armata»: «quella sigla l’abbiamo inventata noi per giustificare le stragi».

Il collaboratore di giustizia autoaccusatosi di un’ottantina di omicidi (tra i quali quello del giornalista Pippo Fava), ha parlato anche di Capaci: «Prima della strage consegnammo a Termini Imerese alcuni pacchi con dell’esplosivo che proveniva dalla ex Iugoslavia. Si trattava di panetti da 5 chili avvolti in un involucro chiuso dentro nascosti in casse su cui c’era la scritta T4». Avola ricorda però che il capomafia Santapaola non condivideva assolutamente la strategia stragista intrapresa dai corleonesi guidati da Riina e che in particolare Marcello D’Agata, uno dei più fidati consiglieri del boss catanese, lo dissuase dal prendere parte all’attentato al giudice Giovanni Falcone. Per questo motivo l’apporto del clan all’eccidio si sarebbe limitato alla consegna dell’esplosivo.

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