Pubblicato: ven, 16 Ott , 2015

Sabra e Shatila, una ferita non rimarginata.

Nel mondo sono tanti i crimini contro l’umanità che vengono ignorati per indifferenza e interessi: non sono storia ma ancora cronaca.

– di: Associazione di Amicizia italo palestinese Onlus Firenze –

Anche quest’anno il Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila ha organizzato un viaggio in Libano in occasione delle commemorazioni del massacro di Sabra e Shatila del 1982.

palestinesi-libanoIl 6 Giugno 1982 Israele invase, per la seconda volta, il Libano in un’operazione chiamata “Pace in Galilea”, decisa dal Primo Ministro Begin e dal Ministro della Difesa Ariel Sharon con lo scopo di penetrare 45 Km. nel territorio libanese per difendere la sicurezza israeliana, distruggendo le basi dell’OLP nel Sud del Libano, da dove però l’organizzazione di Arafat non aveva lanciato nessun attacco da oltre un anno. Un esercito di 60.000 soldati, affiancato da mezzi corazzati e supportato dalla marina e dall’aviazione israeliana, iniziò il tentativo di conquistare il Libano.

Il 15 settembre, le forze israeliane entrarono a Beirut Ovest, in piena violazione del negoziato promosso dagli Usa e il comandante israeliano Eytan concordò con il nuovo capo delle Forze Libanesi di affidare il comando dell’operazione “Pulizia etnica” a Sabra e Shatila al responsabile dei servizi speciali libanesi.

Prima dell’azione delle forze libanesi, i soldati israeliani perquisirono i campi ed i quartieri di Beirut alla ricerca di 120 professionisti palestinesi che, credendosi al sicuro, visto che non avevano partecipato ai combattimenti, non erano fuggiti.

L’esercito non entrò subito nei campi, ma circondò gli ingressi di Sabra, dei campi di Shatila e Burj el Barajne ed il quartiere dell’ex sede dell’OLP, con uomini e carri armati. Alle 5 di sera di giovedì 16 settembre, i miliziani libanesi penetrano nei campi ed iniziarono il genocidio, Palestinesi, siriani, libanesi subirono lo stesso destino. Il numero totale delle vittime assassinate e di quelle scomparse nel nulla è di circa 3.000. Un massacro voluto e orchestrato dal leader sionista Ariel Sharon, un crimine contro l’umanità per cui Israele non ha mai pagato.

Oggi i rifugiati palestinesi registrati con UNRWA (Organizzazione delle Nazione Uniti per i rifugiati palestinesi) in Libano sono circa 450.000, la maggior parte dei quali vive nei 12 campi ufficiali e rappresentano circa il 10% della popolazione del Libano. I rifugiati palestinesi non hanno accesso ai diritti umani di base, il lavoro è interdetto per 73 categorie professionali perché formalmente, non sono considerati cittadini di un altro stato e quindi non hanno il diritto a rivendicazioni comuni per altri gruppi rifugiati che vivono e lavorano in Libano. La sanità e la scolarizzazione di base sono garantite da UNRWA, ma le prestazioni mediche specialiste e i gradi superiori di istruzione in Libano sono affidate al privato e i palestinesi possono accedervi con enormi difficoltà. I palestinesi, inoltre, non hanno il diritto di acquistare terreni o case perché i libanesi temono che in questo modo, un giorno, potrebbero acquisire la cittadinanza mettendo ancora più in crisi il delicato equilibrio politico libanese.

La missione della delegazione italiana in Libano, di cui faceva parte anche il presidente dell’associazione di amicizia italo-palestinese di Firenze, è stata coordinata, come ogni anno, dall’associazione Beit atfal Assumoud che si occupa di fornire servizi educativi e sociali all’interno dei campi profughi.

Durante la settimana di permanenza sono stati organizzati incontri con le forze politiche libanesi che sono più vicine alla causa palestinese che hanno illustrato la loro visione sull’attuale situazione in Medio Oriente e che hanno concordato sul fatto che gli avvenimenti attuali fanno parte di un disegno complessivo volto al consolidamento delle posizioni occidentali nella regione e che prevede l’eliminazione dei campi profughi e la dispersione del popolo palestinese. Un altro punto su cui tutti concordano è che in Libano i campi profughi devono essere superati perché hanno condizioni igienico sanitarie intollerabili e difficilmente consentono a chi vi abita una vita dignitosa.

La delegazione ha potuto visitare i campi profughi di El Buss, Burj Shemali, Rashidieh, Shatila e Nahr el Bared. Quest’ultimo fu distrutto nel 2007 dall’esercito libanese e, per molti anni, i rifugiati sono stati costretti a vivere in container. Da qualche anno è iniziata la ricostruzione che, ad oggi, è giunta quasi a metà, ma il problema della riduzione dei fondi a disposizione di UNRWA si fa sentire in modo sempre più pressante e i lavori stanno rallentando. I nuovi appartamenti rispettano gli standard europei, le strade sono ampie e il mercato, fiore all’occhiello del campo prima della distruzione, ha ripreso la propria attività; il problema attuale sono i controlli imposti dall’esercito libanese a chi vuole entrare nel campo e che impediscono di fatto l’attività commerciale. I problemi economici di UNRWA si ripercuotono in modo pesante sull’istruzione infatti la riduzione del personale ha portato a classi trasversali di oltre 50 studenti e all’impossibilità di fornire materiale didattico con la conseguenza che l’abbandono scolastico è in forte aumento. Il campo profughi che più colpisce chi partecipa a questo viaggio è il campo di Shatila; le condizioni sanitarie e ambientali sono pessime: le abitazioni sono umide e sovraffollate e molte affacciano su canali di scolo aperti. Il sistema fognario ha bisogno di essere ingrandito. I vicoli che si snodano fra le abitazioni sono strettissimi, non ci sono parchi pubblici, i bambini non hanno posti in cui giocare. La sensazione complessiva è di claustrofobia mentale e fisica che si acuisce se si pensa che ci sono uomini e donne nati e cresciuti lì e che, ad oggi, hanno ben poche prospettive di uscirne. In Libano il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite, non è una questione teorica, è un’esigenza tremendamente pratica e attuale che la comunità internazionale non può continuare ad ignorare.

Il 18 settembre la delegazione ha preso parte alla commemorazione del massacro e alla cerimonia di deposizione delle corone presso il monumento funebre ai martiri di Shatila. I familiari dei martiri e di coloro che, in quei tragici giorni scomparvero e non sono mai più stati ritrovati, partecipano alla manifestazione portando le foto dei loro cari e raccontano a chiunque abbia voglia di ascoltarli la loro storia di dolore, rabbia, nostalgia… Rabbia per delle morti per cui non è mai stata fatta giustizia nonostante siano noti i nomi dei responsabili, dolore per le perdite o per l’impossibilità di avere certezza del destino dei propri familiari, nostalgia per chi, comunque, non c’è più perché le ragioni di una politica spietata hanno primeggiato sui sentimenti di umanità… Sabra e Shatila è e resterà una macchia incancellabile sulle coscienze di quanti vi hanno partecipato e su quelle di chi non ha fatto niente per impedirlo prima e per far prevalere la giustizia dopo.

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