Pubblicato: gio, 12 Dic , 2013

Programma protezione testimoni: un fallimento dello Stato

Arrestato per errore il pentito di ‘ndrangheta Luigi Bonaventura. La colpa, di un database non aggiornato

 

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Luigi Bonaventura

Per raccontare questa storia partiremo dalla fine, e precisamente da un episodio a dir poco allucinante, sintomo di una realtà ancor più vergognosa. Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone, è oggi uno dei più importanti collaboratori di giustizia contro la ‘ndrangheta calabrese. Giovedì 5 dicembre è stato invitato a partecipare ad un convegno presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università statale di Brescia. Tema dell’incontro: “Dentro la ‘ndrangheta”, inserito nel ciclo: “La mafia a 100 passi da casa nostra”. A dirci cos’è successo la mattina seguente, è lo stesso Bonaventura.

«Mi trovavo nella camera d’albergo in compagnia di uno dei miei legali, l’avvocato Ruggiero Romanazzi, che la sera prima aveva partecipato al convegno insieme a me. Poco dopo le 6 del mattino sono entrati dei poliziotti, seguiti verso le 8:30 da un’altra pattuglia. Mi hanno perquisito e portato in Questura». A niente sono serviti i tentativi, suoi e dell’avvocato (compresa una telefonata al suo referente dei carabinieri di Termoli, città dove risiede insieme alla famiglia), di far capire agli agenti che chi avevano davanti non era certo un latitante, ma anzi un uomo che da 7 anni è passato dalla parte della giustizia, mettendo a disposizione degli inquirenti il proprio patrimonio conoscitivo: «Ho collaborato e collaboro con mezze procure italiane, comprese una straniera: Catanzaro, Campobasso, L’Aquila, Torino, Reggio Calabria, Bologna, Stoccarda, etc.». Una volta giunti in Questura «uno dei loro superiori gli aveva già detto con quale codice scendermi al carcere, ma poi finalmente, verso le 11, dopo la chiamata di un magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, mi hanno liberato. Nell’ultima ora in Questura era venuto pure il mio avvocato, insieme ad Arthur Cristiano, presidente della Rete Antimafia di Brescia, per aiutarmi a spiegare e a chiedere la mia immediata liberazione e – tiene a precisare – i poliziotti, grazie anche ad uno di loro che aveva intuito che nel mandato di cattura qualcosa non quadrava, si sono comportati in maniera garbata». Ma perché quest’arresto?

A spiegarcelo meglio, è ancora una volta lo stesso Bonaventura: «Purtroppo, nella banca dati di tutte le forze di polizia, risultavo pericoloso boss della ‘ndrangheta, latitante da 10 anni e per questo ero ricercato con un mandato di cattura da eseguire. Inoltre, cosa anch’essa strana, durante il convegno qualcuno davanti l’entrata principale dell’Università ha incendiato un cassonetto. Mi hanno detto che non era mai successa una cosa del genere».

Nel 2003, il 42enne di Crotone era effettivamente latitante. Lo rimase per circa un mese, per essere poi arrestato poco dopo e poi finire in manette una seconda volta nel 2006. L’anno successivo inizia ufficialmente a collaborare con la giustizia (collaborazione avviata in maniera ufficiosa già nel 2005). Grazie alle sue dichiarazioni, ha fatto arrestare decine di ‘ndranghetisti (fondamentale il suo contributo per far luce sulla strage di Duisburg). Eppure, nonostante questo, il database della Questura di Brescia era rimasto fermo a dieci anni prima, rendendo necessario l’intervento di un magistrato della Procura antimafia di Catanzaro perché venisse sanato l’errore. Un errore gravissimo, che ha fatto scattare un arresto sulla semplice segnalazione di un database non aggiornato e che getta pesanti ombre sull’operato di chi avrebbe dovuto tutelare. In primis, il Ministero dell’Interno. Perché, se da un lato tale vicenda evidenzia la totale mancanza di coordinamento tra tutti gli apparati dello Stato e che non tutti sono a conoscenza dello status di collaboratore di Bonaventura, dall’altro è lecito immaginare che dietro a tutto questo ci siano scenari più oscuri. Come se l’episodio faccia parte di un disegno più grande, volto ad isolare e delegittimare ulteriormente il pentito. Lui, che ricorda come gli stessi Falcone e Borsellino riconoscessero nell’isolamento e nella delegittimazione armi capaci di uccidere un uomo, ne è fortemente convinto. Prima di procedere all’arresto, avrebbero almeno potuto eseguire una verifica sull’effettivo status della persona ricercata, secondo l’art. 349 del codice di procedura penale.

Come se non bastasse, una volta riconosciuta l’assurda gaffe, il vice questore vicario di Brescia ha pensato bene di chiamare la stampa locale per la dovuta smentita circa l’arresto di Bonaventura, ma alla rettifica non sono seguite le scuse. «Non ho nessuna condanna pendente, per la legge italiana sono un uomo libero, ma ad oggi non sono ancora arrivate le scuse. Hanno pensato di salvarsi la faccia davanti al Ministero, ma non gli è importato di sminuire la mia persona», afferma con amarezza. In tutti questi anni lui e la sua famiglia hanno subito numerose minacce, compresi un paio di agguati volti a farlo sparire e una lettera contenente un bossolo di pistola. Mentre lo Stato è rimasto sempre in silenzio. Una «situazione angosciante e deludente», in cui la famiglia Bonaventura (composta da un nucleo di 8 persone) vive ormai da troppo tempo. È soltanto grazie al sostegno di una parte della società civile e di alcune associazioni (come “100 x 100 in Movimento”, “Rete Antimafia Brescia” e “I Cittadini contro le Mafie e la Corruzione”), che «non si è pentito di essere un pentito». Perché «bisogna andare avanti e crederci. Cercare lo stimolo e trovare l’energia. Bisogna farlo per il prossimo, perché l’indifferenza danneggia il futuro e chi rimane in silenzio si rende complice». Il pensiero va soprattutto ai suoi due figli: «Sono stato addestrato sin da piccolissimo a combattere e a 10 anni già sparavo. A loro voglio regalare l’infanzia che io non ho mai avuto».

Ma per quanto un uomo possa impegnarsi, le circostanze della vita (determinate per volontà di qualcuno), impediscono a volte di portare a compimento anche i più semplici progetti. «Un mesetto fa mi sono recato al Comune per fare autenticare una foto di mio figlio tredicenne, al fine di fargli svolgere attività fisica. Ma c’è stato un problema con i documenti di copertura e i dipendenti per poco non chiamavano i carabinieri. Il programma di protezione, dicono, è a norma di legge, ma è assurdo che ancora oggi due persone appartenenti allo stesso nucleo familiare non ne facciano parte. È impensabile che si renda la vita piena di disagi e di difficoltà, a chi ha deciso di collaborare con la giustizia».

Da che parte sta lo Stato? Viviamo in un Paese in cui il titolare del Ministero dell’Interno (lo stesso peraltro dal quale è partito l’errore che voleva l’arresto di Bonaventura) promette di tutelare con ogni mezzo chi si batte contro le mafie e poi non fa nulla per proteggere i testimoni e i collaboratori di giustizia. Pensiamo a Massimo Ciancimino, il testimone chiave del processo sulla trattativa tra pezzi deviati dello Stato e la mafia, continuamente minacciato e tuttora senza scorta. Pensiamo a Ignazio Cutrò, l’imprenditore che, esasperato, ha rinunciato al programma di protezione predisposto per sé e la sua famiglia. «Lo Stato ci distrugge», scriveva, nemmeno una settimana fa, in un drammatico comunicato. E, infine, pensiamo alla povera Lea Garofalo: abbandonata dallo Stato, prima di essere uccisa. Collaboratori e testimoni di giustizia «dovrebbero essere la punta di diamante alla lotta alle mafie e alla corruzione – si sfoga ancora Bonaventura – e invece il segnale che viene mandato è: “Vuoi collaborare? Guarda che ti succede”. Un collaboratore va protetto, ma basta venire a Termoli per capire di cosa sto parlando. Essere un denunciante sembra essere il marchio peggiore, l’infamia per eccellenza».

«Vivo sotto un programma di protezione silente. È tutta una farsa. Non mi è mai stata assegnata la scorta (gli viene assegnata solo quando si presentano impegni giudiziari, ndr). Da due anni ne ho fatto esplicita richiesta, ma non ho ottenuto alcun riscontro. Ho chiesto espressamente ad Alfano e a Letta maggiore tutela per me e la mia famiglia. Ho anche chiesto di lasciare Termoli, località dove vivono altri collaboratori e finti pentiti, per essere trasferito all’estero, ma rimanendo comunque in Europa per poter più facilmente seguire i lavori delle Procure. Lo stesso Ministero dell’Interno ha stabilito che non posso rimanere in Italia, promettendomi che una volta raggiunto l’accordo bilaterale con il Paese che si è reso disponibile ad ospitarmi, sarebbe potuto avvenire il trasferimento». La promessa è stata fatta a giugno. Ad oggi, non ha ricevuto alcuna risposta. Se non consideriamo come tale l’arresto di venerdì scorso.

La tentazione di «proteggersi da solo» è tanta, poiché «il messaggio che viene dato ai veri pentiti è scoraggiante. Siamo noi a pagare il prezzo più alto, mentre in questa situazione i pesci piccoli ci sguazzano». Ma non è tutta colpa del programma di protezione. «C’è una parte di politica corrotta, che non vuole che questo programma funzioni. C’è una strategia ben precisa messa in atto per non fornire le risorse e gli strumenti giusti per l’inserimento socio-lavorativo dei collaboratori». Garantire la sicurezza rimane la priorità, certo, ma bisogna anche che lo Stato li sostenga con opportunità occupazionali, in modo da aiutarli a ricostruirsi una vita. Profilo professionale compreso.

«Si parla tanto di trattativa Stato-mafia, qui a Termoli la trattativa si consuma ogni santo giorno, mentre l’antimafia viene usata come cavallo di Troia. Bisogna mettere al bando la retorica e fare “l’Antimafia del giorno prima” – conclude Bonaventura –. Lo Stato deve riconoscerci il diritto alla vita e alla libertà, altrimenti parliamo di violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e quindi di una sconfitta dello Stato stesso e di una società che si definisce civile».

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