Pubblicato: gio, 23 Gen , 2014

Mafia, il pentito La Barbera: «Per Grasso era pronto l’esplosivo»

Al processo sulla trattativa fra lo Stato e Cosa nostra, il collaboratore di giustizia conferma progetto attentato. Sull’omicidio di Salvo Lima: «Bisognava dare una lezione allo Stato»
 
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Piero Grasso

«Per eliminare Piero Grasso avevamo già l’esplosivo e i telecomandi. L’attentato doveva avvenire nell’ottobre del ‘92 a Monreale, luogo in cui andava spesso per incontrare i suoceri. Che si trattasse del dottor Grasso, l’ho saputo però soltanto nel 1994, quando ho iniziato a collaborare». Lo ha detto il pentito Gioacchino La Barbera, deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia. «Dopo aver ritirato i telecomandi a Catania da referenti di Nitto Santapaola, li ho consegnati a Salvatore Biondino. Avevamo fatto i sopralluoghi con un furgone modificato. Era tutto pronto. L’esplosivo andava collocato in un tombino nella strada in cui doveva passare Grasso, ma ci fu un problema tecnico. Siccome non si sapeva quando sarebbe passato, la ricevente doveva restare collegata alla batteria per troppo tempo, con la possibilità che si scaricasse. Rischiavamo che scoppiasse prima del passaggio del nostro obiettivo e non se ne fece più nulla».

«In Cosa nostra c’era un certo ottimismo prima della sentenza della Cassazione sul maxiprocesso. Quando però la Corte confermò le condanne, avallando il teorema Buscetta, fu decisa una strategia di attacco allo Stato, con le stragi. Iniziammo con Falcone, che era sempre stato un nostro nemico dichiarato e si proseguì con Borsellino». Ha aggiunto La Barbera rispondendo alle domande del pm Francesco Del Bene. Il pentito, parlando del piano di guerra ordito da Totò Riina contro lo Stato, ha ribadito come tale strategia prevedesse di colpire quei politici che non avevano mantenuto le promesse fatte a Cosa nostra, prima fra tutte: l’attenuazione del 41 bis. «Tutti quelli che avevano promesso di dare qualcosa e non l’avevano data, andavano ammazzati». Fu così che la mafia stilò una lista di politici da eliminare. «L’obiettivo era colpire la Democrazia Cristiana e in particolare Salvo Lima e i cugini Salvo». L’indicazione, La Barbera la ricevette da Bagarella, cognato di Totò Riina e suo “ambasciatore”. «Si doveva dare una lezione allo Stato. Si è deciso di fare questi omicidi, questi attentati, perché l’importante era andare contro lo Stato e i politici attuali». Nell’elenco delle persone da eliminare c’era anche l’ex ministro Calogero Mannino, di cui i boss tenevano sotto controllo ogni spostamento, e i figli di Giulio Andreotti. Come già rivelato anche da altri collaboratori, il pentito racconta di come si fosse deciso di uccidere Andreotti «perché non aveva fatto nulla per Cosa nostra, disinteressandosi del 41 bis. Non l’aveva fatto togliere e non aveva fatto tornare tutto come prima. Ma era un bersaglio difficile, al contrario dei figli che non avevano la scorta». Prima che venisse arrestato Giovanni Brusca (il 20 maggio 1996), «questi mandò a Roma il genero di Nino Salvo, Gaetano Sangiorgi, per capire se Claudio Martelli era un facile obiettivo. Sangiorgi studiò dove abitava e tornò dicendo che viveva in una villa sulla via Appia. Forse Martelli era stato scelto perché si era fatto tanto per procurargli i voti, ma lui parlava male di Cosa nostra ed era stato uno dei protagonisti della legge sul 41 bis». Tra gli obiettivi della strategia di ritorsione di Cosa nostra c’erano anche degli agenti di polizia penitenziaria. «Dopo il trasferimento di alcuni detenuti al carcere di Pianosa, ricordo che ci arrivarono delle lamentele da parte dei parenti. Tra questi c’era Santino Pullarà, che si lamentò dei trattamenti nei confronti del padre Giovanni, boss di Bonagia-Falsomiele. Qualcuno aveva già individuato qualche guardia da ammazzare che lavorava in quel carcere. I detenuti ricevevano percosse e andavano presi provvedimenti».

Nella sua deposizione La Barbera ripercorre gli anni caldi della stagione delle stragi e racconta l’esistenza di una sorta di trattativa instaurata tra la mafia e le forze dell’ordine, parallela a quella avviata da Riina tramite Vito Ciancimino. Anello di congiunzione di questo “dialogo” era l’estremista di destra Paolo Bellini, detenuto nel carcere di Sciacca per una serie di furti commessi in Toscana. La “primula nera” Bellini venne incarcerato sotto il falso nome di Roberto Da Silva. Nella stessa prigione era rinchiuso anche Nino Gioè. Fu così che i due strinsero “amicizia”, «parlando continuamente del periodo che si stava vivendo, quello cioè delle stragi». La Barbera riferisce che «fu anzi lo stesso Bellini a sollecitare Gioè, dicendogli che le cose che stavano succedendo erano controproducenti per Cosa nostra». Bellini, inoltre, sarebbe stato in contatto con un generale dell’Arma dei Carabinieri, l’ispettore Procaccia della Questura di Reggio Emilia, che gli avrebbe dato le foto di opere da recuperare. «Anch’io vidi quelle fotografie – afferma La Barbera –. Ritraevano dei quadri che erano stati rubati. Mi ricordo in particolare di una foto che ritraeva un cane con la testa mozzata». Il generale avrebbe chiesto a Bellini di interessarsi al recupero dei quadri. Ed è qui che entra in gioco Gioè. I due si incontrano ad Altofonte (sarà il primo di una lunga serie di appuntamenti) e Bellini gira a lui la richiesta di recuperare le opere d’arte trafugate. Questi accetta, a patto che alcuni “amici” boss del calibro di Luciano Leggio, Bernardo Brusca (padre di Giovanni) e Pippo Calò avrebbero ottenuto i domiciliari o gli arresti ospedalieri.

Il baratto però non avvenne. Sempre secondo quanto raccontato da La Barbera, Bellini suggerì a Gioè di colpire il patrimonio artistico italiano. L’accordo fu ipotizzato tra maggio e settembre del ’92. «Una volta Gioè mi disse: “Te lo immagini se l’Italia si sveglia una mattina e non trova più la Torre di Pisa?”. E noi cominciammo a organizzarci in questo senso ». Nel 1993 la mafia prese di mira obiettivi artistici come le chiese di San Giovanni al Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma e la sede dell’Accademia dei Georgofili a Firenze.

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