Pubblicato: mer, 5 Mar , 2014

Bindi e Fava divisi sull’esistenza del “Protocollo Farfalla”

Per il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia «nessuna prova scritta», ma per il suo vice esiste eccome
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Rosy Bindi

«Siamo in grado di dire che non esisteva un protocollo scritto, ma non mi sento di escludere che ci siano stati comportamenti impropri». Risponde così Rosy Bindi alle domande dei giornalisti, al termine della prima giornata di lavori della Commissione Parlamentare Antimafia a Palermo, in merito all’esistenza del cosiddetto Protocollo Farfalla: un accordo segreto stretto oltre una decina di anni fa tra il Dap e il Sisde sulla gestione del flusso di informazioni provenienti dai boss mafiosi detenuti al 41 bis, all’insaputa dell’autorità giudiziaria e quindi senza che venisse lasciata alcuna traccia nei registri carcerari, come invece prescritto dalla legge.

Il Protocollo Farfalla è l’ennesima “anomalia” emersa nel corso delle indagini sulla trattativa fra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra.

«Abbiamo fatto un pezzo di strada – ha aggiunto il presidente della Commissione – che riteniamo positivo perché abbiamo accertato che questo protocollo non esisteva sul piano documentale. Piuttosto esistevano dei comportamenti che si è sentita la necessità di regolare. Come Commissione d’inchiesta faremo la nostra parte, la magistratura farà la sua. Indagheremo nei limiti degli strumenti che abbiamo, dell’utilizzazione degli strumenti che abbiamo e degli obiettivi che dobbiamo raggiungere. C’è sempre un rapporto tra fini e mezzi nel nostro lavoro».

Rimane però forte il dubbio su quali fossero i comportamenti ai quali fa riferimento Bindi e soprattutto da chi siano stati messi in atto. Non solo. La sicurezza con la quale il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia afferma che non esiste nessuna prova scritta di quel documento riservato, contrasta nettamente con quanto dichiarato in un’intervista dal suo vice, Claudio Fava, appena due mesi fa, in occasione del trentennale dell’omicidio per mano mafiosa del padre Pippo. «Ho rivolto una specifica domanda al ministro della Giustizia e al ministro degli Interni riguardo il contenuto del Protocollo Farfalla, il quale avrebbe legato il dipartimento di polizia penitenziaria al Sisde, tanto che avrebbe previsto la possibilità da parte degli agenti del Sisde di incontrarsi con i detenuti sottoposti a regime di 41 bis senza lasciare alcuna traccia della propria visita».

«Ecco, sono fatti come questo, poco chiari, che lasciano una percezione opaca di questo Stato, che vanno assolutamente portati alla luce – aveva detto ancora Fava, rispondendo alla domande del giornalista Bongiovanni, di Antimadia Duemila –. Ed è altrettanto intollerabile che tutto ciò sfugga al controllo giudiziario. Dobbiamo capire il perché sia stato creato un documento del genere, perché interessavano particolarmente i detenuti al 41 bis, con quale scopo si sarebbero dovuti incontrare certi personaggi, con quale obiettivo, e se si volesse in quel modo ottenere o proporre qualcosa. Questo diventa un passaggio della trattativa da ricostruire e da svelare, sul piano penale e politico».

Il Coordinatore della Segreteria nazionale di Sel aveva già parlato dell’esistenza del Protocollo Farfalla nel corso della due giorni della Commissione Parlamentare Antimafia a Reggio Calabria lo scorso dicembre, esprimendo la necessità di approfondire tale punto. La convinzione che il documento esista, deriva «da altre testimonianze di magistrati che hanno lavorato al Dap. […] Abbiamo bisogno di capire cosa contenga questo protocollo e quando sia stato utilizzato e quanti ne siano al corrente. La domanda deve servire ad aprire un ragionamento sul quale ci aspettiamo arrivi rapidamente risposta». Già allora qualcun altro aveva espresso parere opposto. La volta scorsa era stata l’ex ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, la quale aveva spiegato di non essere a conoscenza dell’esistenza di un accordo tra Dap e i Servizi segreti.

Bisogna invece risalire al 2011 perché si parlasse per la prima volta pubblicamente del patto segreto tra Dap e Sisde di Protocollo Farfalla sulla gestione dei detenuti al carcere duro. Era stato l’ex dirigente del Dipartimento di amministrazione penitenziaria Sebastiano Ardita (oggi procuratore aggiunto a Messina) a farne esplicitamente il nome nel corso della sua deposizione come teste al processo Mori. Ardita raccontò anche di non esser mai riuscito ad avere tra le mani quel documento, che sarebbe stato redatto dall’allora capo del Dap Giovanni Tinebra, perché coperto dal segreto di Stato.

Quale Stato, viene da chiedersi. Lo stesso, forse, che ancora oggi stringe patti con i mafiosi, che favorisce depistaggi, che insabbia indagini, che isola e delegittima fregandosene del concreto rischio di morte di chi vuole arrivare alla verità.

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